Venezia 77 – The World to Come: recensione del film di Mona Fastvold

Se ci si riflette, ci si accorge che il cinema (americano ma non solo), ha sempre dato pochissimo spazio alla dimensione femminile popolare dell’800, il che di certo è già un elemento per cui vi consigliamo The World to Come.
Il film di Mona Fastvold, traendo ispirazione al romanzo omonimo di Jim Shepard, regala allo spettatore uno spaccato sociale, umano e storico di grande interesse, e getta una luce che illumina un universo che ha avuto sempre pochissimo spazio.
Lo fa grazie ad una sceneggiatura curata dallo stesso Shepard e da Ron Hansen, che ha al centro il rapporto complesso e appassionato tra la timida e triste Abigail (Katherine Waterston) e la vivace e ma parimenti insoddisfatta Tallie (Vanessa Kirby).
Se Abigail deve la sua infelicità alla tragica perdita della bambina, che ha intaccato il matrimonio poco appassionato con il marito Dyer (Casey Affleck), Tallie invece disprezza e disistima totalmente il suo consorte, il tirannico ed ipocrita Finney (Christopher Abbott).
Tra le due nascerà una profonda amicizia che in breve si tramuterà in qualcosa di molto più forte, ma il mondo, e l’epoca in cui vivono, alle donne permettono ben poco.

The World to Come e la condizione femminile dell’epoca

Film lento, riflessivo, caratterizzato da una voce narrante che non sempre appare così calzante o condivisibile come scelta diegetica, The World to Come ha però nella regia della Fastvold un elemento di grande caratura, capace di guidarci dentro quell’universo domestico dell’America dell’800, tra fatica, malattia, ed una vita che poteva essere spezzata al primo alito di vento, al primo inverno o acquazzone.
Le case, le fattorie e le stalle, sono tutto ciò che conta, tutto l’universo di un’umanità avvolta da una natura potente, bellissima ma ferale, indifferente alle vite che nascono e si spengono come la luce di una candela.
E lì, in quel mondo, essere donna è mostrato dalla Fastvold per ciò che era: una condanna, la garanzia per infelicità, per una sorta di schiavitù esistenziale, da sottomesse fattrici e braccianti, ad una volontà maschile che quasi sempre prevedeva anche una sessualità tanto imposta quanto mortificante.
Tutto, tutto questo è reso palese, terribile normalità di un mondo non poi così lontano, quotidianità di un’esistenza dimenticata, che ai nostri occhi appare inconcepibile. O quasi.

Un film sul concetto di felicità e di perdita

The World to Come ci mostra il trascorrere delle stagioni, l’incidere della quotidianità nella realtà contadina, scandita da intemperie, silenzi, dal focolare domestico, e da una vita fatta di doveri, animali da accudire, tetti da riparare.
Non vi è violenza degli uni verso gli altri, quanto piuttosto una costante incomprensione, incomunicabilità, le donne fanno ciò che si prevede faccia una donna, gli uomini escono e rientrano nel loro mondo, dediti più ai campi che al cuore di quelli che per loro rimangono esseri misteriosi e imprescrutabili.
La bellissima fotografia di André Chemetoff esalta sentimenti, umori, si sposa alle tonalità di un mondo in cui la luce è una rara benedizione, un po’ come la felicità, miraggio che Abigail e Tallie trovano l’una nell’altra, come chissà quante donne a quel tempo facevano di nascosto o sognavano senza poter fare.
La perdita, la morte, il lutto, sono connessi non solo ad una maternità assente o strappata, ma soprattutto ai sentimenti, quelli scomparsi o imposti, quelli soffocati e resi cenere da un mondo che non ammette libertà di scelta o pensiero ad una donna.

La fantasia e l’immaginazione come tenue salvezza

Nel suo essere quadro di un’epoca, The World to Come ci mostra verosimilmente come quelle pioniere, contadine e casalinghe sfuggissero ad una vita passata nei panni di un’altra: sognando, rivivendo i pochi momenti felici, recitando una parte di convenienza.
Il film parla anche di violenza, una violenza che attraversa l’anima del crudele ed insoddisfatto Finney, a cui Abbott dona una compiaciuta acredine e mania di controllo, ammantata della più classica dell’ipocrisia religiosa.
A “salvare” il genere maschile vi è invece il debole, malinconico, ma in un’ultima analisi soprattutto sfortunato ma sensibile Dyer di un Affleck che non combatte mai una guerra che capisce di non poter vincere. Si offre piuttosto come placebo esistenziale e sentimentale, maschera di una vita mai vissuta, mai partita, di un matrimonio fallito perché è mai genuino come lo furono milioni in quel tempo.
Il tempo in cui essere donna era vivere dentro una prigione di carne, di silenzi e di accettazione di “doveri matrimoniali” propri di un patriarcato feroce e implacabile.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.5