The Turning – La casa del male: recensione dell’horror di Floria Sigismondi

Il primo lungometraggio di Floria Sigismondi non è esattamente quanto ci si aspettava dall'artista. C'è molta della sua poetica, ma in un contesto anche troppo controllato.

Tratto da uno dei grandi classici dei libri di fantasmi, Giro di vite di Henry James, The Turning è il lungometraggio di esordio di Floria Sigismondi. Per i fan del genere, questo nome potrebbe essere familiare: pur avendo fatto incursioni nella regia delle serie tv (girando alcuni episodi di show amatissimi, come The Handmaid’s Tale e American Gods), la sua fama è cresciuta specialmente nell’ambito fotografico e nel videomaking musicale. A lei sono associati alcuni dei videoclip più inquietanti della storia del genere, che rientrano a pieno titolo in quella che i più definiscono come “estetica del disturbo“. Immagini viscerali, montate senza alcun criterio logico se non quello del terrore, unite ad elementi gotici e funerei. A lei e al suo stile si sono rivolte le più svariate star, ma probabilmente l’apice di questo sodalizio visivo-musicale in chiave pop sono i video che la Sigismondi ha girato per Marilyn Manson, che hanno contribuito ad elevarlo come icona dissacrante assoluta (almeno nel suo momento di gloria).

Per questo motivo, un film horror firmato da Floria Sigismondi porta con sé un carico di aspettativa, che in parte The Turning riesce a soddisfare. In parte, però, si nota anche un piede che spinge sull’acceleratore solo in pochi fugaci momenti, che hanno la “colpa” di solleticare la fantasia dello spettatore, senza soddisfarla pienamente.

The Turning, una storia di presente

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L’impianto narrativo è quello noto ai lettori di Henry James, o a coloro che hanno già visto qualche altra versione per il cinema del famoso romanzo. Tra gli ultimi esempi, c’è The Haunting of Bly Manor, una rivisitazione romantica, nel miglior senso del termine. Rispetto all’interpretazione di Mike Flanagan, la Sigismondi si concentra su una sola linea narrativa, quella della tutrice Kate Mandell (Mackenzie Davis) chiamata a prendersi cura della piccola Flora Fairchild (Brooklynn Prince), orfana di entrambi i genitori. La bambina vive, con la sola compagnia della governante Mrs. Grose (Barbara Marten), in una villa antica, piena di stanze e anfratti bui. Presto si aggiungerà al gruppo anche il fratello di Flora, Miles, interpretato dalla star di Stranger Things e di It Finn Wolfhard.

La narrativa di genere ci insegna che un palazzo di campagna, praticamente disabitato, è il posto migliore per trovare fantasmi e sinistre presenze. E, ovviamente, neanche la Fairchild Estate fa eccezione. Gradualmente riemergono dal passato altre due figure, quelle dell’ex tutrice dei bambini, Miss Jessel (Denna Thomsen) andata via “senza neanche salutare”, a detta della bambina, e quella dello stalliere Quint (Niall Greig Fulton). Cosa è successo a queste due persone è al centro del torbido mistero che infesta la villa.

Volti noti, poco pathos

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Per mettere in scena questa storia di fantasmi, sono stati scelti alcuni volti noti soprattutto agli spettatori delle serie tv. Il primo è il giovane attore di Stranger Things, che con il suo volto affilato ben si sposa a quell’estetica sisgismondiana fatta di artisti emaciati e tormentati. Nel pieno della sua adolescenza, Miles crea subito un rapporto di sfida nei confronti della tutrice Kate, in cui si insinuano perverse sfumature di perversione. Questo dettaglio, presente anche nel romanzo originale, è qui dosato per il grande pubblico, con tutta l’attenzione del caso a non rendere il meccanismo eccessivamente morboso. Mackenzie Davis, oltre ad alcuni ruoli nella sci-fi, è stata la protagonista di uno degli episodi più amati dai fan di Black Mirror, San Junipero. Qua veste i panni di una scream queen intellettuale, dallo stile vintage, la cui condotta irreprensibile sarà scena dopo scena messa in discussione.

In un ruolo solo apparentemente marginale, si trova Joely Richardson, star cinematografica qui investita del ruolo della folle e profetica madre della protagonista. In pochi minuti, riesce a contribuire al film dando una lezione ai giovani colleghi e alla loro fissità espressiva. L’impressione, infatti, è che il casting abbia seguito più il criterio del richiamo del pubblico (nel caso di Finn Wolfhard) e della risposta a un ideale estetico borderline. Tuttavia, poco spazio si è dato alle loro capacità interpretative che diventano del tutto accessorie a una storia che si regge sulle atmosfere, su alcune scene intriganti, e su un apparato fotografico e scenografico di alto livello.

The Turning, l’orrore della paranoia

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Se The Haunting of Bly Manor riscrive Giro di vite in chiave sentimentale, The Turning indaga l’aspetto più psicologico dell’orrore. Macchiata da un’eredità mentale pesante, Kate si presenta tuttavia come una ragazza razionale e con la testa sulle spalle: sarà Fairchild Estate, con i suoi segreti, a trascinarla verso uno stato paranoico sempre più ossessivo in cui il suo delirio si sovrapporrà alla realtà.

Da questo punto di vista il contributo visionario della Sigismondi, per quanto nel film si esprima meno di quanto potrebbe, riesce a rappresentare la graduale discesa verso la follia, dove piccoli movimenti e la costante sensazione di essere osservati divampano come un incendio nel finale. L’ostilità di alcuni abitanti della casa e l’apparente fragilità di Flora, spingono Kate a una mania di persecuzione, che la indirizza verso l’atrocità persistente che si è consumata tra le mura della sua nuova abitazione. Sola, persa e aliena in un mondo sospeso nel rimpianto di chi non c’è più, Kate entrerà in contatto con la parte più oscura di sé, quella più fragile.

The Turning è un film con un ottimo potenziale, ma che non ha il coraggio di essere fino in fondo quello di cui il pubblico di genere ha bisogno: qualcosa di personale, di nuovo. Non di perfetto, ma di memorabile.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

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