The Souffleur: recensione del film di Gastón Solnicki, da Venezia 82

L’eutanasia delle cose, nel cinema, è il gesto di chi sa filmare la fine senza violarla. The Souffleur rappresenta un grazia visiva di ciò che svanisce silenziosamente.

Esistono dolori che non lasciano cicatrici visibili, ma segnano profondamente lo spazio e il tempo. Dolori che non esplodono in gesti o parole, ma si lasciano decantare nelle superfici, nei corridoi muti, nelle stanze che hanno respirato con noi. In The Souffleur, presentato nella Sezione Orizzonti dell’82ª Mostra del Cinema di Venezia, Gastón Solnicki mette in scena questo dolore sommesso, incarnando con precisione chirurgica e delicatezza visiva l’idea di un’eutanasia delle cose: un accompagnamento consapevole alla fine di ciò che, pur non essendo più funzionale, continua a portare dentro sé il respiro di un’esistenza passata. Non si tratta di una morte brutale, ma di un gesto d’amore. Un congedo lento, silenzioso, quasi liturgico, verso ciò che ha abitato i sentimenti umani.

The Souffleur: l’eutanasia dei luoghi

The Souffleur;
Cinematographe.it

L’Hotel Intercontinental di Vienna, cuore pulsante della narrazione, si fa corpo fragile e nobile, che chiede solo di essere lasciato andare senza violenza. Come un vecchio attore che recita l’ultimo monologo con grazia, l’hotel si arrende con dignità alla propria uscita di scena.

Vienna, in questa cornice, è molto più che ambientazione. È una presenza viva, malinconica, sfuggente. Un fantasma che aleggia tra le ombre gotiche e le superfici marmoree, sospesa tra un passato che resiste e un futuro che non arriva mai.
-È una Vienna che non si mostra, ma trasuda memoria. La città che Zweig sognava già perduta, che Roth lasciava evaporare tra stoffe stanche e silenzi imperiali. Una Vienna di spazi che ricordano, come in Hofmannsthal, dove anche gli oggetti sembrano trattenere il respiro.-
Solnicki la filma come un corpo che respira piano, in una quiete rarefatta che sa di requiem e di fiaba interrotta.

Ecco, il volto di Willem Dafoe

Al centro di questo rituale sospeso, Willem Dafoe, in una prova d’attore che supera la soglia dell’interpretazione. Dafoe non recita, rinasce nel suo personaggio. Il suo corpo è un’architettura di silenzi e attese, un’ossatura emotiva che si muove appena, con il peso di chi ha imparato a non rompere le cose che ama. Ogni gesto è un frammento sacro. Ogni sguardo, un requiem.

Il volto scavato, sfiorato da una luce tagliente e algida, diventa lo specchio di una sofferenza trattenuta, sussurrata, mai compianta. In lui si concentra la tensione tra il desiderio di restare e la necessità di lasciare andare. Dafoe scolpisce un personaggio che è insieme guardiano, amante e sacerdote. Il suo dolore è ieratico, fatto di pelle e tempo, in una recitazione che tocca il vertice della presenza assoluta.

The Souffleur: valutazione e conclusione

La regia di Solnicki è il corrispettivo formale di questo dolore. Attraverso la paralisi della ripresa che rifugge il movimento, preferendo piani sequenza statici e inquadrature che sembrano incisioni, il regista costruisce una grammatica visiva basata sull’assenza, sull’attesa, sulla sospensione. È una regia che veglia servendosi dei tecnicismi del cinema europeo. La fotografia, naturale e desaturata, avvolge gli ambienti in una luce terminale, come se tutto stesse accadendo dopo la fine, nel crepuscolo delle cose. Il montaggio è calibrato come un respiro: lento, etereo, con dissolvenze che non interrompono ma accompagnano, come carezze date al momento del distacco.
The Souffleur non segue una narrazione lineare, ma si struttura come un poema visivo, un diario di bordo scritto con immagini, silenzi e luce fioca.

L’eutanasia delle cose attraversa il film come una linea sottile, invisibile ma pulsante. Gli oggetti, gli spazi, i luoghi — se vissuti, se amati — non spariscono: chiedono di essere accompagnati. Non si disfano, si spengono lentamente, come stanze che esistono fino all’ultimo sguardo, e poi si chiudono in silenzio, come palpebre. The Souffleur diventa una relazione d’amore; un’opera sull’amore resistente: quello che non salva, ma accompagna. Quello rivolto a ciò che non serve più, ma che continua a custodire un pezzo di noi. Un amore che sa essere struggente, etico, definitivo.

Gastón Solnicki dirige un film contemplativo. È un’opera che respira nei suoi silenzi, che chiede tempo, lentezza, partecipazione. Un’opera che si dissolve mentre la si guarda, come neve su una vetrata calda. Bella.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 4

3.4