Bif&st 2020 – The Song of Names: recensione del film con Tim Roth e Cliwe Owen

In anteprima italiana il film di François Girard basato sull’omonimo romanzo di Norman Lebrecht.

Può l’Olocausto cambiare per sempre anche le vite che ha solo sfiorato da lontano? La risposta è sì, e lo sa bene Martin Simmonds (Tim Roth) che da 35 anni cerca l’amico fraterno Dovidl (Cliwe Owen) violinista prodigio scomparso nel nulla a 21 anni proprio la sera del suo primo e attesissimo concerto da solista. The Song of Names narra le vicende di Dovidl, ebreo polacco preso in adozione dal padre di Martin per sovvenzionare i suoi studi e coltivare il suo talento musicale nel momento in cui in Europa scoppia la Seconda guerra mondiale. Il ragazzo perde, così, le tracce della sua famiglia rimasta in Polonia e deportata in un campo di concentramento. Il talento di Dovidl, unito a un carattere fiero e scostante, inizialmente indispongono il piccolo Martin che si ritrova in casa un estraneo formidabile al violino che il padre venera.  Con il passare del tempo, però, anche lui viene conquistato dalla sua bravura e dal suo animo e i due diventano amici inseparabili, almeno fino a quando non si ha più traccia di Dovidl.

The song of names, cinematographe.it

The Song of Names – Due vite lontane unite dalla musica

Tra flashback e flashforward François Girard (Seta), come nel suo film del 1988 Il violino rosso, torna a raccontare una storia nella quale la musica è il filo conduttore che in questo caso unisce le vite dei protagonisti divisi fisicamente dal dolore, dal silenzio, dal Storia più crudele. Quello che all’inizio sembra un classico romanzo di formazione a due con Martin che diventa “mentore” di Dovidl ostinato a farlo esercitare sempre di più e convito che l’amico avrà una lunga e fruttuosa carriera, si tramuta nel disperato viaggio che Martin intraprende 35 anni dopo la sparizione di Dovidl tra Londra, Polonia e New York alla ricerca di risposte ma anche di un legame spezzato.

Un’ossessione quella del personaggio interpretato da Tim Roth, misurato e intenso, che non può soffocare perché la musica che è la sua vita lo riporta inevitabilmente al “fratello” e al suo ignoto destino. La stessa ossessione che per gran parte del film tormenta il giovane Dovidl afflitto dal pensiero di non poter recitare per i suoi cari il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, perché non conosce la loro sorte, e accecato dal dolore arriva a ripudiare la sua religione.

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The song of names, cinematographe.it

Il canto del ricordo

Un’impostazione classica per il dramma di Girard, basato sull’omonimo romanzo di Norman Lebrecht, che tratta la tragedia dell’Olocausto senza addentrarsi nei campi di concentramento mostrando le tristemente già note immagini di disperazione e violenza. Il regista non sacrifica, però, l’intensità di questa tragedia che si legge tutta nello sguardo dei sopravvissuti che rivolgono il loro canto di addio ai cari portati via dal vento o nelle lacrime di Dovidl che vive un angosciante dilemma. O ancora in Dovidl adulto, un Cliwe Owen incisivo pur nella sua breve interpretazione, che ha “sospeso” anni prima la sua vita dopo una dolorosa e inevitabile rivelazione. Ed è “la canzone dei nomi” e il violino di Dovidl a comunicare quello che le parole e le immagini non riescono a raccontare.

The song of names, cinematographe.it

Il cinema sembra non stancarsi di ricordare l’Olocausto e opere come The Song of Names rendono degnamente omaggio alle vittime di un genocidio i cui racconti non smettono mai di sconvolgere ed emozionare. Ed è giusto che sia sempre così.

Nel cast anche Catherine McCormack, Jonah Hauer-King, Eddie Izzard, Saul Rubinek. Prossimamente nelle sale italiane distribuito da Koch Media.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Recitazione - 4
Fotografia - 3
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.6