The Miracle Club: recensione del film di Thaddeus O’Sullivan
Irlanda-Lourdes, andata e ritorno, per Laura Linney, Kathy Bates e Maggie Smith. The Miracle Club, nelle sale italiane il 4 gennaio 2024, è una gradevole, anche se un po' convenzionale, storia di perdono e riconciliazione che abbraccia il passato e il presente.
Speranza, memoria e riconciliazione, parole che contano nel discorso di The Miracle Club, regia di Thaddeus O’Sullivan, in arrivo nelle sale italiane il 4 gennaio 2024 per una distribuzione Europictures. Dalla sua ha il verde inconfondibile dell’Irlanda che ospita, accogliente e un po’ soffocante, le quattro bravissime protagoniste – Kathy Bates, Maggie Smith, Laura Linney e Agnes O’Casey – il fascino caloroso della ricostruzione d’epoca, l’ambiguità apprezzabile di una narrazione in bilico tra commedia e dramma. La storia di un viaggio, un viaggio a Lourdes, all’inseguimento di un miracolo. Lo cercano tutte e quattro, ciascuna in modo diverso, per motivi diversi e non è detto che saranno in grado di riconoscerlo, quando se lo troveranno davanti. Il film le accompagna con calore, fidandosi pigramente di caratterizzazioni e dinamiche convenzionali e poco coraggiose.
The Miracle Club: un ritorno insperato e quattro miracoli
L’anno è il 1967, la città Dublino. L’occasione è la morte di Maureen. Madre di Chrissie (Laura Linney), cresciuta negli Stati Uniti, a Boston, lontana dalla sua terra e dalla sua gente. Se ne è andata di casa che era ancora ragazza e nessuno ha mai saputo perché. Né lei né la madre si sono mai preoccupate di spiegare le cose. Una delle amiche più care di Maureen era Lily (Maggie Smith), la mamma di Declan, il ragazzo di Chrissie all’epoca della partenza, morto anche lui. Lily ora è una simpatica vecchietta e insieme a Eileen (Kathy Bates), amica e confidente di Chrissie e Declan, tutto si aspetta meno che di trovarsi davanti, a una piccola celebrazione parrocchiale organizzata per onorare l’amica scomparsa, la pecorella smarrita. Ma è proprio così.
Dei tanti misteri di The Miracle Club, quello che riguarda Chrissie non è necessariamente il più importante, ma è quello che spiega molte cose. La permanenza negli Stati Uniti l’ha raffinata, evidente lo scarto di attitudine e modo di pensare (atea!) che la separa dai sobborghi polverosi e traboccanti calore umano, solidarietà e complicità. Chrissie è equilibrata, intelligente, empatica, ma c’è qualcosa che la consuma e il viaggio è l’occasione per liberarsene. La vecchia comunità la respinge. Eileen si comporta da amica tradita e non le rivolge la parola. Lily la fulmina con gli occhi ogni volta che si avvicina. L’unica che, non essendo nata all’epoca dei fatti, non ha alcun motivo di rancore verso Chrissie è Dolly (Agnes O’Casey), che infatti l’accoglie con calore e se ne frega del resto. Dolly è la miccia che mette in moto il film.
Dolly ha un figlio cresciuto che non parla e nessuno capisce perché. Pensa al viaggio a Lourdes in mancanza di alternative, delegando al mistero, al trascendente, il compito di risolverle i problemi. Partiranno tutte e quattro, ognuna con un mistero in fondo al cuore e un disperato bisogno di risposte. Con l’eccezione di Chrissie, le tre donne lasciano a casa mariti recalcitranti e piuttosto ostili all’idea di restarsene da soli a casa mentre le donne sono via. Su tutti il marito ubriacone di Eileen, Frank (Stephen Rea). Il viaggio è un primo importante passo verso l’emancipazione da tradizioni ammuffite. D’altronde, hanno tutte un buon motivo per partire. Dolly ha suo figlio, Eileen qualcosa che non va nel suo corpo. Chrissie e Lily non sono in pace, per lo stesso motivo.
Quattro più uno
Quattro più uno, dove l’uno, Stephen Rea, adorabilmente stropicciato e fuori fase, prende in carico il versante secondario della storia, la cronaca dei primi timidi passi dei poveri mariti lasciati soli in casa a sperimentare le difficoltà della vita domestica; provvidenziale e furbetto sottotesto femminista per una storia che va dal punto a al punto b nel modo più tranquillizzante. Tutto abbastanza prevedibile e stereotipato; valga per la cronaca della vita di quartiere, su in Irlanda, come per la risposta/ non risposta all’inevitabile ambiguità del miracolo (c’è stato? che tipo di miracolo?).
La regia di Thaddeus O’Sullivan si confronta con il placido conformismo della sceneggiatura accettandolo senza riserve, confidando nel prestigio delle quattro protagoniste per portare storia e personaggi oltre uno standard abbastanza deludente. L’idea, qui, è che il cinema sia non tanto quello che uno dice o fa, ma l’intonazione. C’è del vero, ma se presa alla lettera, la considerazione è anche molto superficiale.
Quattro più uno, dove il quattro è il numero fortunato di The Miracle Club, le quattro interpreti, nessuna delle quali irlandese di nascita e chissà come la prenderanno da quelle parti, in termini di verità della rappresentazione. C’è la calda umanità e la spontaneità di Agnes O’Casey, la reticenza e il calore di Laura Linney, la fragilità esuberante di Kathy Bates. Anche, non è una sorpresa per nessuno, la grandezza apparentemente replicabile di Maggie Smith; in realtà, non ce n’è per nessuno(a). Tira fuori profondità notevoli oltre i limiti e l’autocensura dello script, lavorando su tre “strumenti”: un corpo che si muove con fatica, una debole voce, l’intensità dello sguardo. Il segreto del genio, non si usa a sproposito la parola, consiste nell’ottenere l’impensabile facendolo sembrare la cosa più naturale e logica del mondo. Non imitate Maggie Smith. Non perché sia pericoloso, perché non ci riuscireste. Le hanno dato un personaggio, ne ha fatto una persona.
The Miracle Club: conclusione e valutazione
Oltre il doveroso tributo a Maggie Smith, il concorso di talenti che si sistema davanti la macchina da presa nobilita e giustifica The Miracle Club oltre i suoi difetti. In realtà è uno solo e anche bello grosso: la sostanziale prevedibilità dell’operazione. Ancora una volta, il problema del cinema benintenzionato e consapevolmente in bilico tra dramma e commedia: farsi bastare l’intrinseca nobiltà dei temi e dei sentimenti, senza provare a complicare le cose, a cercare il dramma nei posti più inconsueti, a mettere alla berlina i personaggi. Fosse mancato il fantastico cast, The Miracle Club avrebbe faticato molto più di così.