Venezia 77 – The Furnace: recensione del film di Roderick MacKay

Presentato a Venezia 77 nella sezione Orizzonti, The Furnace di Roderick MacKay è un western tipicamente australiano. Non un capolavoro, ma sicuramente un film onesto e con un cast che non sbaglia mai un colpo.

The Furnace, diretto da Roderick MacKay, rappresenta sicuramente un esempio classico di quella cinematografia western australiana, che negli ultimi decenni ci ha donato numerosi titoli di alto livello. Gli aborigeni al posto degli Apache o Lakota, i soldati di sua maestà al posto dei cavalleggeri, cowboy e tagliagole invece, sostanzialmente uguali.
Tuttavia, il far parte dell’Impero Britannico fece sì che il continente australe finisse per ospitare un numero sterminato di altri sudditi, provenienti dagli angoli più sperduti del globo. E pure la fauna ne fu radicalmente influenzata.
Sikh, azeri, cinesi, afgani, nativi africani, curdi, persiani… al contrario di ciò che per lungo tempo il cinema ci ha mostrato, l’Australia era molto più di un duetto tra bianchi e nativi. E The Furnace apre un interessante squarcio storico su una realtà a lungo dimenticata.

The Furnace ci porta tra deserti e rinnegati

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Protagonista di The Furnace è il giovane ed ingenuo Hanif (Amhed Malek), cammelliere afgano che sogna di poter lasciare quella terra aspra, inospitale e di tornare in patria. Il suo sogno pare potersi finalmente realizzare quando sulla sua strada, trova il misterioso ed arcigno Mal (David Wenham), fuorilegge e rinnegato in fuga con alcuni lingotti d’oro trafugati, ferito e senza speranza. Il miraggio di un facile guadagno spingerà entrambi verso un’odissea fatta di sospetto, recriminazioni e della speranza di riscattare un’esistenza deludente e povera. Il tutto mentre il fanatico Sergente Shaw (Jay Ryan) da una parte, spietati capibanda e cacciatori di taglie dall’altra, sono sulle tracce dell’improbabile duo, attraverso una terra aspra e inospitale. Una terra in cui solo i nativi sembrano avere ancora umanità e senso dell’onore o anche solo una parvenza di quella saggezza, che la fame di oro e gloria può far sparire in un solo istante. Nativi che hanno nel Woorak di Baykali Ganambarr (premiato a Venezia due anni fa per The Nightingale) un ambasciatore perfetto.

The Furnace è un western tipicamente australiano

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Il film di MacKay ha una regia molto robusta ed efficace, che sa sfruttare in pieno le potenzialità offerte da una natura selvaggia, bellissima, valorizzata dalla fotografia di Michael McDermott e Bonnie Elliott.
La sceneggiatura di MacKay non è magari la più originale che si possa avere, ma in compenso omaggia i topoi del western alla John Ford e alla Peckinpah, si pone come ponte tra il classico ed il crepuscolare.
Tuttavia The Furnace rimane un classico esempio di western australiano, nel suo alternare una dimensione diegetica che si collega alla fabula, ad una più seriosa e storicizzata, nel suo connettersi al tema del viaggio, dello scontro tra il concetto di uomo “civilizzato” e di “selvaggio” che poi selvaggio non è.
Anche il ritmo, nonché il suo mostrare una violenza ed una morte quasi private della componente drammatica, resa fatto storico, contestuale di un’epoca selvaggia e impietosa, lo rende sicuramente un’opera che ha ben poco a che spartire con film come The Revenant o Hostiles. Western australiano, appunto.

Un film sulla ritrovata spiritualità

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The Furnace ha nel Mal di un dolente, ferito e simpaticamente cinico David Whenham, una sorta di simbolo della storia “bianca” di un paese che fu (bisogna sempre ricordarlo) sempre visto dal resto dell’Impero come una colonia penitenziaria. Eppure l’ex Faramir del Signore degli Anelli, riesce a rendere mano a mano questo vecchio tagliagole uno spirito, se non nobile, perlomeno in grado di andare oltre le apparenze, di mostrare una luce disgraziata e umana.
L’anima del film di MacKay è nel suo confronto-scontro con l’Hanif di Malek, anima persa della storia e della vita, musulmano molto più materialista e “occidentale” di quanto egli stesso sia pronto a riconoscere.

The Furnace, nel cercare di mettere contatto due diverse culture e modi di vedere la vita, è sicuramente molto più efficace del a suo tempo sopravvalutatissimo The Nightingale. Lo è per umiltà, coerenza di sguardo e visione, per il suo rinunciare ai facili effetti e alle facili emozioni, in virtù di un iter in cui i personaggi sono il vero centro, il vero motore, anche a costo di rendere l’insieme un po’ “freddo”.
Non un capolavoro, ma sicuramente un film onesto e con un cast che non sbaglia mai un colpo.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.3