Bifest 2021 – The Enemy: recensione del film di Stephan Streker con Jérémie Renier

La cronaca romanzata dell’affaire Wesphael in una pellicola che mescola crime, legal-movie e prison-movie. La recensione del quarto lungometraggio del cineasta belga, interpretato da Jérémie Renier e Alma Jodorowsky, presentato nella sezione Panorama Internazionale del Bif&st 2021. 

A molti la vicenda narrata in The Enemy, presentato nella sezione Panorama Internazionale della 12esima edizione del Bif&st, ricorderà qualcosa. Questo perché non è il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma la rievocazione romanzata di fatti realmente accaduti, dai quali il regista Stephan Streker ha tratto il suo quarto lungometraggio. Il regista ha messo mano a una materia incandescente, portando sul grande schermo una delle vicende giudiziarie e di cronaca nera più note della storia belga, ossia l’affaire Wesphael. Trattasi della morte di Véronique Pirotton, la moglie del noto ex-deputato vallone Bernard Wesphael, il cui corpo privo di vita è stato ritrovato nel bagno della camera 602 dell’Hotel Mondo di Ostenda, cittadina portuale situata sulla costa occidentale. Ed è stato proprio lui, secondo parlamentare nella storia belga ad essere processato e primo a finire in carcere, il solo e unico accusato del presunto omicidio avvenuto nel 2013.   

The Enemy è la cronaca romanzata del controverso affaire Wesphael

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Per motivi legali e per la prospettiva dalla quale vengono narrati i fatti in questione, vale a dire quella del presunto carnefice poi assolto per insufficienza di prove dopo un lungo e complicato processo che ha monopolizzato per mesi i media e spaccato in due l’opinione pubblica divisa tra colpevolisti e innocentisti, l’autore ha preferito cambiare riferimenti diretti alla vicenda in questione. Di conseguenza Wesphael è diventato nel film l’enfant terrible della politica Louis Durieux, interpretato sullo schermo da Jérémie Renier, accusato dell’omicidio della moglie, la conduttrice radiofonica Maeva Durieux (Alma Jodorowsky), trovata morta nella stanza d’albergo 108 di un hotel situato in una località balneare non meglio identificata nei Mari del Nord.

Sulla stessa vicenda esiste la docu-serie in cinque episodi targata Netflix dal titolo I retroscena del caso Wesphael

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Cambiamenti a parte è chiaro e lampante che la storia in oggetto ricostruisca, seppur più o meno liberamente, il già citato affaire Wesphael, al quale Netflix ha dedicato una  la docu-serie in cinque episodi dal titolo I retroscena del caso Wesphael diretta da Alain Brunard, rilasciata sulla piattaforma statunitense lo scorso 17 marzo. In quel caso, l’autrice ha cercato una posizione neutrale, inseguendo un contraddittorio attraverso un palleggio tra le due parti. Del resto, nemmeno la magistratura è riuscita a fare luce sull’accaduto e i dubbi se si fosse trattato di suicido dovuto a un’intossicazione dovuta a un mix di farmaci e alcol assunti dalla vittima o di una messinscena per coprire un assassinio per asfissia seguito all’ennesima lite di un matrimonio ormai in crisi sono ancora moltissimi. In tal senso, la docu-serie non contribuisce a scioglierli una volta per tutti, ma al contrario ad aumentarli ulteriormente. Motivo per cui trarre un film o un prodotto seriale su una storia come questa non era per nulla semplice. Il solo fatto di averci provato ed essere riusciti in entrambi i casi a portare un progetto audiovisivo sullo schermo è un merito che va riconosciuto, al di là del risultato.

Il cineasta belga ha costruito l’architettura narrativa di un film tra crime, legal-movie e prison-movie

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Ovviamente per coloro che volessero approfondire in maniera più dettagliata la storia consigliamo la visione della serie. Diversamente c’è The Enemy, che senza schierarsi ricostruisce gli eventi dal punto di vista di Durieux e della tempesta mediatica e giudiziaria che lo ha travolto. È colpevole o innocente? Nessuno sa. Forse nemmeno lui. Ed è su queste basi che il cineasta belga ha costruito l’architettura narrativa di un film tra crime, legal-movie e prison-movie. La pellicola si concentra unicamente su una porzione temporale ben precisa, che è quella che copre i fatti di sangue e il periodo di detenzione del protagonista, con flashback che riavvolgendo le lancette dell’orologio ci riportano a quando la coppia si è conosciuta e dopo un anno è convogliata a nozze. Il risultato è un dramma nel quale convergono le tappe del disfacimento di un relazione sentimentale e le dinamiche  di un fatto di sangue senza verità. Streker, qui anche nelle vesti di sceneggiatore, riesce a fare coesistere i due aspetti, senza che l’uno fagociti l’altro.

Su The Enemy aleggia una sensazione di insoluto e la paura di spingersi al di là del consentito

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C’è però una sensazione di insoluto che aleggia su un film che non ha il coraggio di spingersi al di là del consentito, restando solo in prossimità del campo minato senza tentare minimamente di attraversarlo. Una posizione embedded verrebbe da dire, che consente al regista di navigare in acque sicure. Il ché probabilmente soddisfa solo una parte di potenziali spettatori, ossia quelli che si accontentano di un thriller classico che pone al centro del plot una morte che ad oggi non ha una risposta e una causa. Che si tratti di una storia realmente accaduta diventa secondo questo modus operandi del tutto ininfluente, con il film che si scrolla in parte la responsabilità e l’onere di una ricostruzione fedele. Dunque chi sceglie The Enemy deve sapere in partenza che assisterà a un film interpretato e confezionato con tutti i crismi, ma che “usa” come base la vicenda criminale realmente accaduta come “esca” per attirare a sé gli spettatori.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 2

2.8