The End: recensione del musical apocalittico di Joshua Oppenheimer
Con Tilda Swinton, George MacKay e Michael Shannon, The End è un musical apocalittico fuori dagli schemi diretto da Joshua Oppenheimer. Al cinema dal 3 luglio 2025.
Da dove cominciare, se non dall’etichetta? The End è un musical apocalittico. Ogni semplificazione contiene un’inevitabile compressione della realtà a fini espositivi, ma non esiste definizione che, per quanto sbrigativa, non sia capace di manifestare anche il più piccolo grado di verità. L’espressione musical apocalittico, intorno e subito dopo la fine del mondo – è questo il tempo del film – è incompleta e non dà conto in maniera esaustiva del radicale esperimento tentato da Joshua Oppenheimer sul corpo del genere cinematografico più americano che ci sia, ma qualcosa di importante ce la dice lo stesso. E cioè che The End, nelle sale italiane dal 3 luglio 2025 per I Wonder Pictures, con Tilda Swinton, George MacKay, Moses Ingram e non solo, mescola nella maniera più contraddittoria e audace tradizione (musical) e provocazione (allegoria apocalittica). Con quali esiti, è presto detto: con alti e con bassi, con scelte interessanti e un retrogusto un po’ frustrante. Forse era inevitabile, il bilancio in chiaroscuro. Il film è una grande sfida che ne contiene tante più piccole al suo interno.
The End: il mondo e le persone, dopo la fine del mondo

L’attesa intorno a The End era importante. Molto dipendeva dalla carriera, non così articolata ma incredibilmente prestigiosa, del suo autore, Joshua Oppenheimer, universalmente celebrato per l’uno due The Act Of Killing (2012) e The Look Of Silence (2014), ibridi (acclamato soprattutto il primo) di documentario e finzione dedicati al turbolento passato dell’Indonesia di metà Novecento, con particolare riferimento al massacro delle forze comuniste operato dal governo locale nel corso degli anni Sessanta. È un grande salto, quello tentato dall’autore americano: dal rigore cronachistico dell’universo non-fiction all’elaborata artificiosità (a fin di bene) del cinema di finzione. Il musical, con la sua spettacolare, onirica e chiassosa sospensione della quotidianità è quanto di più lontano dalla narrativa non-fiction; eppure, The End vanta una sorprendente connessione con il passato cinematografico di Joshua Oppenheimer.
Anche qui, il conflitto è tra la verità (emotiva, morale, anche politica) del mondo e le bugie che le persone raccontano per sopravvivere. The End è il mondo dopo la fine del mondo. L’apocalisse è la conseguenza, ci viene dato di capire – script a firma Rasmus Heisterberg e Joshua Oppenheimer – di un irrimediabile disastro ambientale causato dall’uomo. Sono rimasti in pochi. Alcuni, particolarmente sfortunati, agonizzano in superficie, ormai invivibile. I pochi eletti – ovviamente ricchi, quasi tutti bianchi, privilegiati – sopravvivono in bunker sotterranei nascosti all’interno di cave enormi, provvisti di ogni comfort.
Nel bunker vive Padre (Michael Shannon), un tempo petroliere e corresponsabile del disastro. Con lui c’è Madre (Tilda Swinton), ex ballerina del Bolshoi, Figlio (George MacKay), il Maggiordomo (Tim McInnerny), l’Amica (Bronagh Gallagher) e il Dottore (Lennie James). La vita nel bunker è un asettico e igienizzato calendario di giorni tutti uguali tra cibo di classe, antibiotici, vino rosso, Renoir alle pareti e ottimismo di facciata. È questo il tenue filo che protegge l’equilibrio mentale dei superstiti e fa scordare l’assurdità senza scampo della situazione e, principalmente, le atrocità morali compiute per assicurarsi un posto nel bunker: potrebbe contenere più gente di quella che lo occupa realmente, perché sono così in pochi? Un giorno alle porte del bunker arriva, semisvenuta, una Ragazza (Moses Ingram). Viene da fuori, è sopravvissuta per miracolo. Vorrebbero sbarazzarsi di lei ma non ci riescono, anche perché Figlio se ne innamora, ricambiato. Lei è diversa, porta una verità diversa nel bunker e tanto basta per far crollare il castello di carte e tutte le ipocrisie.
Dalla menzogna alla verità, nel segno di un nuovo tipo di musical

La parola giusta è demistificazione. Forse The End non è il film che Joshua Oppenheimer aveva in mente. Forse è solo un tentativo, incompleto ma vitale, di muoversi nella giusta direzione, quella di un cinema di finzione capace di incorporare abbondanti dosi di verità senza mortificare lo spettacolo. Ogni scena, e il film più in generale, si sviluppa allo stesso modo. Un personaggio presenta la propria versione dei fatti, le bugie che si (e ci) racconta per sopravvivere in faccia al disastro. L’interazione con gli altri conduce al progressivo disfacimento dell’ipocrisia, costringendo il personaggio a fare i conti con un tipo diverso di verità rispetto a quella immaginata in principio. Ogni istante del film partecipa dello stesso movimento: dalla menzogna alla verità.
The End è un film sulle storie, sul bisogno di raccontare storie e sull’utilizzo sbagliato delle storie. Troppo spesso sono raccontate per distorcere la verità, mentre andrebbero usate nel modo giusto, per aiutarci a capire la vita. La radicalità dell’approccio di Joshua Oppenheimer non consiste solo nel “contaminare” il musical e la sua intrinseca leggerezza con amare verità intime o con la scomoda evidenza del cambiamento climatico. C’è anche altro. Il cinema ha una forza doppia: spirituale (più è bugiardo, più si avvicina alla verità) e tecnica (il montaggio, la scansione delle inquadrature e il ritmo che ne deriva producono una certa idea, una certa emozione). The End è un musical che sfrutta la doppia forza del cinema per rinnegare se stesso – il colore, l’esuberanza, l’artificiosità spettacolare – e arrivare a un’altra verità. Quello che capita ai personaggi, The End lo pretende anche dal cinema. È la sfida definitiva di un film che osa forse troppo per quelle che sono le sue possibilità, ma va bene lo stesso.
Il musical che ha in mente Joshua Oppenheimer, e che non realizza del tutto, è intimo e politico; è uno spettacolo diverso. L’inquadratura è fredda e impeccabilmente composta, dall’inflessibile geometria, come vuole la fotografia di Michail Kričman. Il ritmo è dilatato, ammorbidito rispetto all’elettricità tipica del genere. Gli arrangiamenti orchestrali più sobri, le parole sincere e scomode (musiche a firma Joshua Oppenheimer e Josh Schmidt). È un musical apparentemente algido e cerebrale e sul fondo incandescente. Forse troppo lungo, sicuramente troppo lungo, e musicalmente non così eterogeneo come ci si aspetterebbe. È la croce del film, e la sua delizia, l’incapacità di Joshua Oppenheimer di partorire un nuovo musical dalle ceneri di quello vecchio. L’intuizione è giusta, servirebbe più finezza nel lavoro con e sul genere. Ma c’è coraggio, ambizione, e la forza di una visione cinematografica che ha pochi paragoni. Non è per niente trascurabile.
The End: valutazione e conclusione
E il cast? L’idea di Joshua Oppenheimer con The End non è così lontana dall’epocale – allora fu un flop colossale, oggi è un cult – tentativo operato da Peter Bogdanovich con Finalmente arrivò l’amore (1975), con il suono in presa diretta e Cole Porter deliberatamente stravolto da attori non sempre con un’adeguata preparazione musicale. Senza avvicinarsi alla radicalità di quell’esperimento, The End cerca quanta più verità possibile nel lavoro musicale (e non) degli interpreti, smitizzando a fin di bene la gloriosa spettacolarità del musical. L’esibizione è la chance per ogni personaggio di presentare allo spettatore, da solo o insieme agli altri, verità problematiche, ipocrisie, speranze, tentazioni. Funziona soprattutto l’immediatezza e la fragilità empatica di Moses Ingram, che si accompagna al lavoro sui non detti di Madre della sempre superba Tilda Swinton. Poi c’è Michael Shannon, e meriterebbe più spazio: il suo personaggio è l’anima nera del film ma lo script non gli dà tutta la centralità che merita. Spazio a sufficienza ne ha George MacKay, che contamina la fragilità e il nervosismo di Figlio con sfumature ciniche e insinuanti. Se il lavoro di Joshua Oppenheimer per la creazione di un musical “nuovo” non può dirsi del tutto compiuto, il coraggio della sua visione, la qualità della recitazione e il prestigio non ostentato dei bravissimi protagonisti gratificheranno comunque lo spettatore.