The Confirmation: recensione del film con Clive Owen

Un moderno Ladri di biciclette meno sociale e più intimo che si focalizza sul rapporto padre-figlio e riesce a incalzare col tempo grazie all'inaspettato e intelligente utilizzo di ironia e fiero ottimismo fanciullesco, capaci di risollevare la storia e portare un sorriso durante il finale.

Negli anni ’40 il neorealismo italiano nasceva per rappresentare sullo schermo storie di denuncia sociale, incentrate su persone comuni e disagiate costrette alla fame e ai più infidi compromessi per sopravvivere in una nazione estremamente colpita dalla guerra mondiale e privata di aspettative bene auguranti per il futuro. A più di settant’anni di distanza, i registi si ispirano ancora ai dettami di quelle storie per crearne di nuove che, nella maggior parte dei casi, possiedono meno mordente e preferiscono orientarsi verso il più comodo ottimismo per lasciare una nota positiva allo spettatore. Anche nel caso di The Confirmation i tempi malinconici e sprezzanti di Ladri di biciclette sono più che andati e di esso è rimasto solamente il pretesto di base per costruire un similare rapporto padre-figlio su una disgrazia rappresentato dal furto di un oggetto di valore insostituibile se si vuole continuare a svolgere il proprio lavoro di stampo manuale, seppur disprezzato e sottopagato.

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The Confirmation: trama e atmosfere che strizzano l’occhio al neorealismo italiano

Bob Nelson, candidato all’Oscar per la sceneggiatura originale di Nebraska di Alexander Payne, esordisce alla regia con un film che costruisce sulla sua semplicità il fulcro della storia. Sin dalle prime inquadrature risulta chiara l’inesperienza di Nelson dietro la macchina da presa, che adotta uno sguardo incerto e traballante, rafforzato da uno stile povero di dettagli e che non gioca con le varie tecniche registiche, ad eccezione di qualche piccolo movimento casuale di macchina.

Le vicende del film sono leggermente caratterizzate dal punto di vista del bambino senza però marcare troppo su questa linea. Come a riprendere il neorealismo, la pellicola cerca di puntare tutto sulla storia rappresentata, su questo racconto di formazione di un giovane che, nel corso del film, si trova costretto a mentire costantemente, rubare ciò che è suo di diritto, organizzare stratagemmi per aiutare il padre a cavarsela nella sua situazione disperata e operare una serie di azioni che sa essere sbagliate ma le compie con tutta l’innocenza propria dei bambini. Il giovane cresce formando una propria idea della realtà che lo circonda, capendo attraverso l’avventura percorsa che non esiste giusto o sbagliato in senso stretto ma siamo noi stessi a dover trovare il giusto equilibrio nelle scelte che perseguiamo.

The Confirmation insegna che non esiste un’idea precisa di giusto e sbagliato

Clive Owen e Jaeden Lieberher sono complici nel raccontare alle altre persone il weekend appena trascorso.

Così come in Ladri di biciclette, la narrazione si svolge nell’arco di un solo weekend e scava nel rapporto tra i personaggi per arrivare a mostrare i cambiamenti che possono avvenire in poco tempo in un bambino costretto a comportarsi da adulto per risolvere i problemi causati dall’inattenzione e dalla sprovvedutezza del proprio genitore. Per assurdo, le scene drammatiche che rappresentavano i momenti salienti e pregnanti del capolavoro neorealista, in questo film non funzionano come dovrebbero e risultano essere banali e poco d’effetto. La pellicola riesce a colpire e affermarsi solamente nel momento in cui l’ironia e la spensieratezza del bambino si fanno strada e prendono possesso della storia facendola proseguire verso un cammino, forse troppo radioso e irrealistico, ma sicuramente più coinvolgente di quello mostrato all’inizio della pellicola.

Clive Owen e Jaeden Lieberher in una scena nella prima parte del film.

Una storia di base, benché già ripresa innumerevoli volte negli ultimi anni, sicuramente interessante da affrontare e rendere propria ma che, a causa di una sceneggiatura forse non perfettamente concepita, impiega diverso tempo prima di ingranare e insinuarsi nell’interesse di chi guarda. È solo dalla seconda metà del film che si riesce ad entrare pienamente nello spirito della vicenda e ad apprezzarla grazie soprattutto all’alchimia che si inizia ad instaurare tra i due protagonisti. È il giovane ragazzo, interpretato da un adorabile Jaeden Lieberher, a salvare continuamente la situazione e a trascinare l’attenzione del film, facendoci sorridere per le sue espressioni preoccupate e pensierose che fanno capire come le rotelle della sua mente siano sempre in funzione per architettare un nuovo piano o ideare un’altra piccola bugia.

Dopo le ottime performance nella serie TV The Knick e nel drammatico Words and Pictures, si vede per la prima volta un Clive Owen lievemente in difficoltà per trovare la giusta interpretazione di un padre assente ed ex-alcolizzato che non sa come rapportarsi col figlio. Egli riesce a immedesimarsi appieno nel ruolo solamente dalla seconda parte del film, quando finalmente azzecca il giusto taglio da conferire all’interpretazione e fa scattare quella scintilla necessaria che fa sembrare lui e Jaeden realmente come padre e figlio.

Puntando sulla sceneggiatura e sull’evoluzione della storia, il film tralascia tutto ciò che è relativo al lato visivo e che opera da cornice della pellicola. La fotografia è naturale e rustica, senza grandi appunti degni di nota e, anziché vertere verso toni caldi o freddi, decide di mantenersi su un aspetto semplice e neutrale. La colonna sonora è praticamente inesistente, forse per non sviare l’attenzione dei personaggi o, d’altra parte, per rafforzare l’idea che si tratta di una storia comune, su personaggi disagiati e sfortunati, che non ha alcun bisogno di abbellimenti visivi o scenici per essere coinvolgente o emozionante.

Un film che, nonostante tutto, riesce a renderti complice delle vicende dei due protagonisti e a patteggiare per loro, anche quando non dovresti.

Regia - 2
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 2
Recitazione - 3
Sonoro - 1
Emozione - 3

2.3