The Chronology of Water: recensione del film di Kristen Stewart da Cannes 2025

Il primo film di Kristen Stewart, presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes

Il nuoto che diventa scrittura, l’attrice che diviene regista, la biografia adattata a cinema: alla rosea ondata che ha investito la 78ª edizione del Festival di Cannes prende parte anche Kristen Stewart con The Chronology of Water, suo esordio alla regia, presentato nella sezione Un Certain Regard. Tratto dall’omonimo memoir di Lidia Yuknavitch, il film è una trasposizione intensa, viscerale e volutamente destrutturata del percorso personale dell’autrice, che da figlia della violenza e dell’alcolismo arriva, non senza deviazioni autodistruttive, a riconoscersi nella scrittura e nel corpo, nel suo rapporto con l’acqua. Stewart, affiancata da Andy Mingo alla sceneggiatura, dirige con mano decisa un progetto ambizioso, prodotto da Scott Free Productions e CG Cinéma, girato tra Lettonia e Malta in un 16mm analogico e granuloso. Protagonista assoluta è Imogen Poots, in una performance che regge bene il centro emotivo del racconto, sostenuta da un cast secondario inaspettatamente efficace – compresa la guest star Jim Belushi, nel ruolo dello scrittore Ken Kesey. Il film è un debutto, sì, ma non acerbo: è semmai un manifesto, un gesto d’autrice.

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L’acqua è come la scrittura

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Fin dalle primissime sequenze, è chiaro che la direzione stilistica non intende fare sconti: il montaggio è franto, compulsivo, le inquadrature si riducono a dettagli ravvicinatissimi — un occhio, una spalla, una cicatrice, il rumore sordo del respiro in apnea. Un’estetica densa che anticipa il senso dell’intero racconto: quello di un’esistenza ricostruita per frammenti, senza linearità e senza concessioni al racconto tradizionale. Lidia è un corpo spezzato e in fuga, che prima tenta il nuoto come riscatto, poi scivola nella dipendenza, infine cerca nella scrittura una nuova possibilità di esistenza. La narrazione si muove per sovrapposizione di ricordi, affetti, dolori; non c’è una vera e propria progressione, ma piuttosto un accumulo: una stratificazione emotiva che si compone a poco a poco, alternando ossessione e lucidità, risalita e ricaduta, buio e luce.

“L’acqua è come la scrittura, ti permette di lasciare la vita”: ed è in questo lasciarsi andare che si muove la Lidia di Stewart, sospesa sempre tra sopravvivenza e autodistruzione, tra un’origine impossibile da cancellare e un presente che si costruisce, a fatica, pezzo per pezzo. La sua storia è fatta di traumi non risolti, ansie sedimentate, insicurezze che non smettono mai di riaffiorare. Ma anche di desideri, di intuizioni, di lampi di vitalità che emergono a fatica ma con forza, come affioramenti d’ossigeno dopo una lunga apnea. Il film non si limita a mostrare la crisi, la ingloba nella forma: immagini caotiche, spesso disturbanti, che non cercano bellezza ma verità. E nella scrittura, come nel nuoto, la protagonista trova il proprio linguaggio, l’unico modo possibile per esistere e, forse, perdonarsi.

The Chronology of Water: valutazione e conclusione

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Dopo Die, My Love di Lynne Ramsay, Cannes accoglie un’altra regista donna che racconta una donna e le sue fratture. Stewart lo fa senza paura, senza mai tentare la strada dell’addolcimento o della sintesi rassicurante: la regia è nervosa, affamata, dinamica, attraversata da primi piani strettissimi, dettagli persistenti, una fotografia di classe che accompagna senza ingentilire. Il montaggio è il vero punto di forza e, a tratti, di disorientamento: è serrato, è sporco, affannato come la vita che racconta. Poots tiene bene la tensione, anche se, per suo sfortuna non arriva ai picchi interpretativi toccati dall’attrice a lei in questo caso parallela (sempre per Die, My Love) Jennifer Lawrence. Eppure il film colpisce, nonostante la durata poi infine possa risultare eccessiva. Questo è il cinema di cui il cinema ha bisogno: giovane, coraggioso, imperfetto ma vivo, girato da chi conosce, da chi osa con cognizione di causa. Stewart sembra aver trovato un posto preciso dietro la macchina da presa, e non ha timore di mostrarci il suo sguardo. La stessa autrice parla del film come di un orgasmo, e forse ha ragione: ci stimola, ci scuote, ci attraversa, e soprattutto ci apre e si addentra mentre si dispone ad essere indagato, penetrato, fin da subito, senza filtri.

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Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.7