Venezia 75 – La Ballata di Buster Scruggs: recensione

Un western strutturato ad episodi che strizza l'occhio ai grandi classici italiani, i fratelli Coen colpiscono ancora nel segno.

Il western tra tutti i generi cinematografici è stato per molto tempo considerato quello più in difficoltà, se non proprio morente, quasi l’ultima ruota del carro (ironia della sorte) di un mondo del cinema in continuo divenire, dove il fantasy, la fantascienza, il musical, e soprattutto i cinecomics dominano in modo assoluto.
Da questo punto di vista l’antica gloria di Balla coi Lupi è sembrata un episodio isolato, quasi una meteora dentro ad un genere che da lì in poi non è che avesse regalato troppe soddisfazioni tra critica e soprattutto botteghino.
Eppure nell’ultimo decennio il western (o comunque il racconto della frontiera americana) ha conosciuto una sorta di rinascimento, condizionato per carità da un’accresciuto contatto con la sperimentazione, la contaminazione, ma che hanno trovato in The Revenant, True Grit, Cowboys and Aliens, Bone Tomahawk, The Lone Ranger e Rango la prova che c’è ancora molto da poter raccontare usando gli orizzonti dell’ovest selvaggio.

Ora, da questa Venezia 2018, per la regia dei Fratelli Coen, esce un film western di grande qualità, personale per stile, struttura e finalità, ma di grandissima fattura e capace di soddisfare ad un tempo gli appassionati del genere come i profani: La Ballata di Buster Scruggs.

La Ballata di Buster Scruggs – tra miniserie e classici italiani

Strutturato ad episodi seguendo per stessa ammissione dei due fratelli Coen la struttura dei grandi classici italiani anni sessanta come I Mostri o I Complessi, La Ballata di Buster Scruggs è diviso in ben sei episodi: La Ballata di Buster Scruggs (la prima che dà il titolo all’intero film), Near Algodones, Meal Ticket, All Gold Canyon, The Gal Who Got Rattled e The Mortal Remains.
Il tutto con un cast a dir poco stellare composto da Tim Blake Nelson, Willy Watson, James Franco, Stephen Root, Liam Neeson, Tom Waits, Brendan Gleeson, Harry Meeling, Zoe Kazan e Saul Rubenik.
I sei episodi affrontano tematiche molto distanti l’una dall’altra, dando un’immagine della frontiera assolutamente diversa da quelle già viste in passato, ironica, dissacrante, spietata o poetica a secondo del caso, tanto che si può dire che non vi sia un’episodio che assomiglia all’altro.
Tuttavia tutti e sei gli episodi sono accomunati dalla primaria finalità di togliere l’alone di mito o di leggenda creato a suo tempo da John Ford o John Sturges attorno al mito del West e dei suoi protagonisti, omaggiando ed ad un tempo ironizzando all’inizio anche sull’eredità del western che fu, quello dei tempi di Tom Mix, Gene Autry o Tex Ritter. Ma anche di Enzo Borboni ed il suo Trinità.
Tuttavia l’operazione dei Coen è in un’ultima analisi incredibilmente più complessa…

I due fratelli infatti, con questo La Ballata di Buster Scruggs, creano quello che è un piccolo scrigno di tutto ciò che è stato raccontato sulla frontiera americana da dietro una telecamera fin dall’alba dei tempi, facendo rivivere nei vari episodi ciò che Anthony Mann, Micheal Winner, Peter Hunt, Sydney Pollack, Sam Peckinpah, Sergio Leone o Robert Aldrich ci hanno lasciato con i loro capolavori eterni.
Allo stesso tempo creano di tutto ciò una propria versione, una propria visione, strenuamente collegata alla loro visione del quotidiano, di un west sicuramente spietato, ingiusto, feroce, restando però sempre sotto le righe, scegliendo un’ambientazione sovente scarna, ma mai per questo troppo legata ad un realismo che è solo di facciata, solo di apparenza, mentre invece ogni momento, ogni istante dei curatissimi dialoghi è portatore di significati e finalità ben precise.

La Ballata di Buster Scruggs ci mostra la realtà del paese della libertà, di come è nato il sogno americano

La ballata di Buster Scruggs Cinematographe.it

Sicuramente centrale rimane il rapporto tra uomo e violenza, uomo e giustizia, su quanto sovente i film ci abbiano descritto quel periodo “antico” degli Stati Uniti come terra delle opportunità e del coraggio e non piuttosto per quello che era: un’epoca di allucinante ingiustizia, di ipocrisia, di homo lupus homini, di egoismo, squallore e caos.
Nessun onore, nessuna giustizia se non quella del taglione, del capestro, o quella che puoi farti con le tue mani, con una Colt in pugno.
Questa è l’America, nulla è cambiato, non era un paese migliore prima dei Cocaine Cowboys e non lo è oggi con le gang nei quartieri o il terrorismo interno di chi entra nelle scuole a sparare a casaccio.
No Country for Old Men lo aveva già mostrato, aveva parlato della violenza che appartiene alle membra e al sangue del Grande Paese fin dall’alba dei tempi; The Ballad of Buster Scruggs ci mostra la realtà del paese della libertà, di come è nato il sogno americano, di come esso si materializzi nella legge del più forte, del più veloce, del più furbo. Da sempre.
Con buona pace di Sentieri Selvaggi o Ombre Rosse, di Gary Cooper e James Stewart.

Perfetto nella scrittura, attraversato dal familiare black humor che abbiamo imparato ad amare nei film di Ethan e Joel, The Ballad of Buster Scruggs si giova di una fotografia assolutamente perfetta di Bruno Delbonnel, di una colonna sonora curata nei minimi dettagli da parte di Carter Burwell e di un montaggio sempre puntuale, che valorizza una prova corale del cast di altissimo valore, con Nelson, Waits e Meeling davanti a tutti.
Niente di trascendentale, nessun conflitto uomo-natura, nessun rapporto con Dio o il supremo, solo la sporca, lurida visione di un mondo che appartiene in tutto e per tutto all’uomo che lo plasma a propria immagine e somiglianza.
L’esistenza umana, con il suo mix di miseria, cattiveria, debolezza, sogni, rivive nella fatica dei cercatori d’oro disperati, dei girovaghi morti di fame, dei pistoleri da strapazzo che sembrano essere usciti freschi da un racconto di Ned Buntline, nel microcosmo di quelle carovane di disperati che sfidavano indiani, malattie e fame per inseguire non un sogno ma per non morire di fame. Altro che il Mito del Progresso.

E’ un film realistico? No. Neppure un film che cerchi il realismo dell’azione o delle vicende, per quanto ne vesta ogni personaggio in un modo o nell’altro, ma è un film che cerca la verità, quella profonda, quella vera, sulla cultura americana, sull’America in generale.
E l’America che ha votato Trump e Bush, l’America profonda, è ancora oggi nell’animo la stessa dai tempi dei fratelli James, della Carovana Donner o dei cacciatori di taglie, l’America del ognuno per sé che Dio ha un sacco da fare anche se lo si prega ogni giorno, e non è detto che pregandolo di più si eviti di finire scalpati o uccisi alle spalle dal primo venuto. Questo è il western dei fratelli Coen: un caleidoscopio di vite e miserie umane, sulle quali si prova a ridere. Ma a denti stretti, avvinghiati ad una raggelante sensazione di disagio che non può essere quietata né dal Gran Canyon, né dal quieto incidere di un cervo o dalla speranza negli occhi di una donna sola nella prateria col suo cane.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 3.5

3.9