State of play: la recensione del film con Russel Crowe e Ben Affleck

Russel Crowe veste i panni di un impavido ed astuto giornalista d'inchiesta, dando vita ad una pellicola dal ritmo avvincente e con una buona dose di suspense

Prendete qualche tradimento, una bella dose di corruzione politica, i soliti intrighi di potere, mescolate il tutto aggiungendo Russel Crowe nei panni di un giornalista d’inchiesta impavido quanto astuto ed otterrete la trama di State of Play, il thriller diretto nel 2009 da Kevin Macdonald e basato sull’omonima miniserie televisiva britannica della BBC. Il film con Russel Crowe (Il Gladiatore), Ben Affleck Rachel McAdam racconta con occhio critico e mai banale il giornalismo d’inchiesta e le difficoltà che esso può implicare quando l’etica lavorativa si scontra con la sfera degli affetti personali, riservando allo spettatore un finale tutt’altro che scontato.

State of play: una trama intrigata e disseminata di colpi di scena

State of play attraverso una storia di intrighi di potere e di vero giornalismo porta sul grande schermo le vicende di due vecchi amici del collage, Cal McAffrey e Stephen Collins. I due, dopo aver fatto carriera il primo nel giornalismo d’inchiesta e il secondo in politica fino a diventare la guida di una commissione congressuale impegnata nella gestione dei fondi per la difesa nazionale, si ritrovano a collaborare al fine di smascherare la Point Corp, un’azienda privata nel settore della sicurezza, sospettata di guadagni illeciti e di diversi omicidi. In particolare alla Point Corp sembrerebbe risalire il falso suicidio di Sonia Baker. La morte di quest’ultima, la quale si scopre essere l’amante di Collins, getta quest’ultimo in un grave scandalo, dal quale Cal cercherà di salvarlo scoprendo la verità e mostrando al mondo intero come i sospetti di Collins nei confronti della Point Corp siano in realtà più che fondati.

Un ritmo avvincente e una buona dose di suspense: i punti di forza di State of Play

Questi gli ingredienti di un thriller che si svolge a tutti gli effetti secondo i ritmi di un’inchiesta giornalistica portando lo spettatore nel vivo di quest’ultima. Una narrazione interna che diventa un tutt’uno con il punto di vista del giornalista Cal, infatti, evitando ogni tipo di anticipazione che possa permettere allo spettatore di intuire quale sia il finale, è il vero segreto della riuscita di questo thriller e della sua capacità di tenere alto il livello di attenzione dello spettatore, anche attraverso continui colpi di scena.

Ma ciò che rende State of Play un thriller degno di essere visto è la sua capacità di mescolare ritmo coinvolgente con una trama di spessore non priva di interessanti spunti di riflessione. In particolare la vita di Cal finisce per essere lo specchio della solitudine che la dedizione al lavoro e la coscienza etica possono implicare. Infatti attraverso la sua inchiesta il giornalista scoprirà un coinvolgimento dell’amico Collins nell’omicidio di Sonia e nonostante ciò deciderà di dare alla stampa nient’altro che la verità, qualsiasi sia il prezzo da pagare.

Un finale in onore del vero giornalismo: la verità ad ogni prezzo

La notizia, dunque, come l’altare al quale sacrificare tutto, anche l’amicizia: questo sembra essere il messaggio conclusivo riposto nel finale del film. Eppure a ben guardare l’amicizia a cui Cal è costretto a rinunciare è quella di un uomo bugiardo ed in fondo interessato solo alla propria reputazione. Un finale abbastanza cinico, ma in fondo realistico che sigilla più che una verità un ideale di giornalismo che meglio non potrebbe essere riassunto se non con la frase della giornalista Anna Politkovskaja:

Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.

 

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.1