Roma FF18 – Shakespea Re di Napoli: recensione del film di Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi

Il film diretto da Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi arriva direttamente dal teatro e incanta il pubblico con la sua storia di poesia, malinconia, amore e morte.

Shakespea Re di Napoli, per la regia di Ruggero Cappuccio e di Nadia Baldi, è stato presentato in grande anteprima alla 18esima Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle. Con un cast ricco di talenti napoletani, giovanissimi e veterani, ha presentato al suo pubblico una storia nota agli appassionati di teatro italiano contemporaneo. Il lungometraggio, infatti, è una trasposizione cinematografica dell’opera teatrale omonima, un prodotto della penna e della fantasia del suo autore: lo stesso Ruggero Cappuccio. La doppia funzione di Cappuccio, padrone della drammaturgia teatrale come della sceneggiatura cinematografica, è caposaldo e garante dell’opera.

La sua coscienza e conoscenza artistica permea il film quanto la pièce teatrale, riportando le atmosfere della scena sul grande schermo. Il termine utilizzato per riferirsi più volte al Bardo, personaggio presente nella pellicola in un ruolo misterioso ed enigmatico quasi quanto la sua esistenza storica, è Maestro: ed è in questo ruolo che Cappuccio e la Baldi si presentano al pubblico in questa nuova versione di Shakespea Re di Napoli. L’artista che conosce ogni possibilità, ogni apertura e anfratto della propria creazione ne è maestro e nessuno più di questo binomio artistico è meritevole di tale appellativo. Dopo decenni passati a lavorare e rielaborare il testo, le sue declinazioni visive, diventa una certezza, per Cappuccio e Baldi, la sua trasformazione riuscita in qualsiasi forma lo credano immaginabile.

Shakespea Re di Napoli: sonetto, poesia, amore e sogno tra cinematografia pura e cinematografia teatralizzata

Una storia, un racconto di vita vissuta o una semplice illusione, un delirio da messiscena, sono al centro della trama di Shakespea Re di Napoli? Una favola vissuta dal giovane scugnizzo e artista di strada napoletano Desiderio (Alessandro Preziosi da adulto, Emanuele Zappariello da ragazzo), abbandonato da sua madre in fasce e cresciuto dal saltimbanco Zoroastro (Giovanni Esposito), o l’onirico delirio di un attore mancato, vittima delle proprie aspirazioni ambiziose, alte, troppo alte? Un velo di mistero accompagna il plot del film dalla prima all’ultima sequenza, lasciandoci l’idea di aver sbirciato nella mente di qualcuno, aver visto fin troppo della sua anima.

Desiderio e Zoroastro, amici ma anche fratelli, fratelli ma anche padre e figlio, sono stati separati dal rapimento del primo in giovanissima età: l’ultima volta in cui si sono visti è stato appena prima di un ballo di Carnevale organizzato dal Vicerè nel suo Palazzo Reale. L’occasione, sapientemente costruita con sfarozoso gusto e costumi suggestivi di un Seicento barocco, è unica: il Bardo in persona, William Shakespeare (Jacopo Rampini), è in visita a Napoli. Il suo scopo? Trovare nuova ispirazione, attingere a piene mani da quella tradizione di musica, folklore, messa in scena, imbroglio e farsa. E cosa c’è di più ricco di magia- per un uomo di poesia e sogno, quasi irreale – della bellezza? La bellezza della gioventù, efebica, di uno splendido ragazzo che non ha nulla se non la sua grazia, purezza, un bocciolo da cogliere nell’attimo precedente la sua fioritura?

Shakespeare va a Napoli nel film di Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi

Shakespeare va a Napoli in cerca di ispirazione, ma trova la perfezione nell’attore/attrice bambino: Desiderio. Lo rapisce contro la sua volontà e, con la complicità del suo precettore/mentore Padre Manfredi (Claudio Di Palma), lo porta via con sé. Il ragazzo diventa così musa e amore, cambiando la sua arte e la sua vita.

Traendo ispirazione da una interpretazione irriverente e “ribelle” dei Sonetti attribuiti a Shakespeare, quella di Oscar Wilde, Cappuccio fa coincidere la venuta a Napoli del Bardo inglese con le romantiche dediche rivolte al fair youth descritto nei versi. Desiderio, nel testo dei Sonetti rinominato Will, sarebbe diventato poi la prima attrice di Shakespeare nelle sue opere maggiori: la star di Otello, Romeo e Giulietta, Macbeth. O, almeno, questa è la storia che Desiderio racconta al suo Zoroastro una volta tornato a Napoli dall’Inghilterra. Una storia che, tuttavia, il disilluso saltimbanco diventato alchimista/imbroglione non riesce proprio a credere possibile per il suo protetto. Solo l’abbandono, la scomparsa e l’improvvisa riapparizione sono realtà per Zoroastro, come la fame e gli imbrogli, i sotterfugi e la vita arrangiata.

L’avventura che li vede protagonisti, tra le splendide location campane scelte da Baldi e Cappuccio, è una ricerca: quella del tesoro perduto, la prova, il ritatto che William ha fatto dipingere del suo amore, del suo artista. Solo quello, con le fattezze a verifica concreta della somiglianza, potrà provare l’identità di Desiderio. Come mai non ha altro che un baule con sé al suo ritorno dal grande paese inglese, dove godeva di fama e ricchezza di attore magnifico, il prediletto del Maestro? Se lo chiede anche Zoroastro, scettico fino all’ultima sequenza. Ma la risposta di Desiderio arriva, pronta come le altre, una verità solenne o una fantasia reiterata al punto da essere irriconoscibile: ha perso tutto in un nubifragio, tutto tranne quel baule che ora stanno portando a corte dal Vicerè, quel quadro che ha le sue sembianze.

Ma la verità del film, del racconto, così come quella del teatro, può essere conoscibile? O Desiderio ci ha coinvolti nel suo delirio, ci ha compromessi con la sua capacità di narratore ed attore, siamo stati anche noi come Zoroastro vittime della sua capacità persuasiva? Abbiamo creduto anche solo per un attimo allla possibilità di questa storia, o è l’arte che ci incanta – come serpenti – e irretisce donandoci un delirio altrimenti impensabile? La risposta è inconoscibile, soggettiva. Non esiste se non nella provocazione del creatore e nella reazione dello spettatore. In questo meccanismo, è palpabile la sua bellezza e la sua fragilità.

Shakespea Re di Napoli: valutazione e conclusione

Shakespea Re di Napoli è una pellicola sospesa, un sincretismo di lingue e linguaggi, inglese ed italiano, musica e dialoghi; un miscuglio di registri: il napoletano barocco del Seicento scelto da Cappuccio per la sua scrittura e il sonetto, sentito ed energico, di una delle più grandi penne della storia. Questa sospensione, ondivaga, crea un’atmosfera da sogno: è impossibile non credere che il racconto di Desiderio non sia reale, che il cuore del Bardo non sia apparenuto a lui, a lui dedicati i versi d’amore.

Tutto il nucleo pulsante di questa rapsodia d’immagini è immerso nell’ironia profonda che una storia concepita con in mente la napoletanità popolare non può ignorare. Giovanni Esposito, Nando Paone, Peppe Servillo, portano la irriverente e cinica satira del Sud in una altrimenti patinata narrazione dagli accenti aulici. Il senso è, invece, proprio la commistione tra alto e basso, popolare e tragico. La regia e le interpretazioni sono perfette e misurate, capaci di oscillare dal delirio alla risata fino all’ultimo, tetro segnale di morte, di fine. In sostanza, Cappuccio e Baldi sono riusciti a cogliere il valore effimero e potente dell’illusione artistica: hanno concepito e creato la bellezza, fuggente ed esplosiva, come il lampo dell’invasamento poetico descritto da Edgar Allan Poe.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.3