Sette anni in Tibet – Recensione del film di Jean-Jacques Annaud con Brad Pitt

Jean Jacques Annaud in "Sette anni in Tibet" racconta, sullo sfondo di un affresco storico-culturale del Tibet, il viaggio spirituale di Heinrich Harrer.

Le scalate possono essere fisiche certo, ma anche spirituali. Non a caso, l’ascesa verso una vetta viene spesso utilizzata in letteratura in questo senso. La più famosa scalata da questo punto di vista è probabilmente quella di Petrarca, il quale, attraverso la difficoltosa salita verso la cima, narra anche la sua crisi spirituale. Raggiunta la cime del Monte Ventoso, apre Le Confessioni di Sant’Agostino e legge: “e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”. Questo episodio riesce a condensare piuttosto bene l’avventura di Heinrich Harrer, il protagonista di Sette anni in Tibet.

Brad Pitt riesce a metà a interpretare il ruolo: non si riesce mai ad entrare veramente in empatia con il suo personaggio

Il film, diretto da Jean-Jacques Annaud, è uscito nel 1997. Il regista de Il nome della rosa porta sullo schermo l’avventura dello scalatore intrecciando l’avventura spirituale con la storia dell’invasione cinese del Tibet. Alle spalle del film c’è la vera storia di Heinrich Harrer che, per realiazzare il film, è stata tratta dall’autobiografia di Harrer.

Heinrich Harrer è un atleta: bello, biondo e idolatrato dal regime nazista, quello che vuole lo ottiene facilmente. È così preso dalla sua immagine esteriore e dal mettersi in mostra da dimenticare i suoi sentimenti. Brad Pitt riesce a metà a interpretare il ruolo: la parte del giovane sfrontato che non guarda in faccia a niente e nessuno è sicuramente meglio riuscita rispetto all’interpretazione dello stesso personaggio durante e dopo il cambiamento spirituale che affronta. Sembra di cogliere la volontà di far trasparire con pochi gesti ed espressioni un forte turbamento interiore, ma il risultato finale è a tratti gelido e distante. Non si riesce ad entrare in empatia con l’interprete.

Più interessante Jamyang Jamtsho Wangchuk che interpreta il XIV Dalai Lama: la quattordicenne guida spirituale del Tibet si divide tra il suo essere adolescente e l’essere il capo del Tibet. Il bisogno dell’adolescente di avere un adulto al fianco che lo protegga e lo guidi si avverte chiaramente senza andare mai a stridere con il lato pubblico e saggio, quello del Dalai Lama.

Il Tibet fa da sfondo non soltanto attraverso l’affresco storico-culturale. Le inquadrature  di Sette anni in Tibet percorrono lo spazio mostrandone l’ampiezza delle pianure e l’altezza delle montagne. Un paesaggio assoluto, arido e vuoto, ma che si slancia verso l’assoluto.

Anche David Thewlis si distingue in Sette anni in Tibet per l’interpretazione di Peter Aufschnaiter, personaggio pacifico e introverso la cui pazienza viene messa a dura prova dal carattere prepotente di Harrer. La sua modestia e il suo carattere mite troveranno nel Tibet un luogo in mettere le radici.

La storia dell’invasione Tibetana viene messa in scena all’occidentale: da una parte il Tibet, terra paradisiaca senza peccato, dall’altra la Cina dipinta come fucina di ogni male. La semplificazione storica in questo caso funziona e riesce a fare da sfondo alla trasformazione interiore del protagonista. L’unico personaggio che riesce a sfumare un po’ i contorni di questo ritratto storico così netto è il ministro Ngawang Jigme. Il personaggio di Bradley Darryl Wong è insicuro, in bilico tra la volontà di emergere come individuo e l’amore per il Tibet. Un po’ codardo un po’ desideroso di mantenere la facciata, il personaggio del ministro si sfuma tra questi desideri diventando traditore solamente alla fine, quando sceglie se stesso al posto della sua terra.

Il Tibet fa da sfondo non soltanto attraverso l’affresco storico-culturale. Le inquadrature  di Sette anni in Tibet percorrono lo spazio mostrandone l’ampiezza delle pianure e l’altezza delle montagne. Un paesaggio assoluto, arido e vuoto, ma che si slancia verso l’assoluto. L’anima umana si presenta sullo schermo attraverso queste inquadrature, un anima vasta in cui l’uomo si sente perso. Heinrich Harrer si perde in questo paesaggio e, allo stesso tempo si perde dentro se stesso. Solo il Tibet lo aiuterà a ritrovarsi.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.2

Tags: Brad Pitt