Selfie: recensione del documentario di Agostino Ferrente

La recensione di Selfie, il documentario per la regia di Agostino Ferrente sul Rione Traiano di Napoli, al cinema dal 30 maggio.

Con Selfie, Agostino Ferrente sfrutta una innovativa forma documentaristica per raccontare il Rione Traiano di Napoli sollevando il velo della cronaca nera e mostrando spiragli di una bellezza solitamente nascosta.

Nel 2014 per le vie del Rione Traiano di Napoli si andava consumando un’altra terribile pagina di cronaca nera, un dramma umano di quelli senza eguali. Tre sedicenni senza casco su uno scooter venivano inseguiti da una volante dei carabinieri e uno di questi ragazzi, Davide Bifolco, scambiato per un latitante, moriva per un colpo d’arma da fuoco “accidentalmente” partito dalla pistola di uno dei due carabinieri. Di quel sedicenne vittima di un sopruso, di una violenza gratuita, veniva poi subito fuori non la drammatica ingiustizia, ma il suo inscindibile legame con le “regole” del luogo, con la malavita, con un passato già pregiudizialmente macchiato. Di quel ragazzo ingiustamente ucciso veniva dunque fuori la colpevolezza preventiva e intrinseca che già di per sé attenuava l’altrui colpevolezza. Tanto è vero che poi, di fronte a una sentenza d’appello con incredibile riduzione di pena a due anni di carcere, si spegnerà anche la vita di Tommaso Bifolco (fratello del ragazzo), auto-inflittosi – di fronte alla nuova morte del fratello a mezzo di una giustizia incompiuta – la fame e il non sonno, e morto d’infarto dopo cinque giorni.

Selfie: autoritratto di una napoletanità strappata al cliché di Gomorra

Selfie - Cinematographe.it

Da questo dramma a tinte forti che viene dalla vita reale, Agostino Ferrente, già autore nel 2014 del bellissimo Le cose belle, mette in scena Selfie, un documentario (il primo italiano girato interamente proprio come un selfie) che dà voce agli amici di Davide, riporta dignità e giustizia a persone e storie che hanno subito un ingiusto silenziamento e sono state vittime di pregiudizio ancor prima che vittime reali. Mettendo un iPhone nelle mani dei due bei protagonisti Alessandro e Pietro, e dicendo loro di riprendersi filmando ciò che accade alle loro spalle per raccontarsi e raccontare il loro mondo, Ferrente accorcia così le distanze tra spettatore e protagonista, tra opera e realtà, tra soggetto e oggetto, azzerando quasi tutti i filtri tra ciò che è e ciò che di solito noi vediamo filtrato dallo sguardo autoriale. Un cinema veritè che s’insinua per le strade del Rione Traiano e attraverso le voci di due adolescenti rende omaggio a quella umanità avvolgente, al disincanto che porta due ragazze non ancora diciottenni a immaginare una vita futura con i mariti in prigione, alla capacità di vedere cose belle anche laddove si è circondati da malavita e morte, alla voglia di superare quel muro rappresentato dal Rione e che nel poetico parallelismo con l’Infinito di Leopardi rappresenta un ostacolo invalicabile ma anche il confine oltre il quale si cela un mondo infinito di cose da scoprire.

Ferrente intercetta abilmente la vivacità e la bellezza di due ragazzi uniti da un’amicizia tenera e speciale, che sopravvissuti alla morte di Davide lo raccontano raccontandosi, esprimendo a loro modo tutte le difficoltà di una realtà dove rinunciare ai soldi facili dello spaccio è per pochi, richiede una grandissima forza di volontà e opposizione a una realtà che è diffusa, inglobante, e spesso l’unica via possibile. Raccontano di un mondo dove è consuetudine lasciare la scuola dell’obbligo perché dai genitori è difficile avere tanto un aiuto allo studio quanto un aiuto economico. Raccontano di un mondo abbandonato a sé stesso che proprio come in Under 18 –Storie di sogni periferici ancora il sogno a una realtà circostante limitata e limitante. Raccontano di come il dolore sordo per la perdita di un amico e per la perdita della speranza induca un ragazzo sensibile e intelligente ad affogare il proprio dolore nel cibo, nella speranza di colmare un vuoto che però non si colma e anzi si allarga a macchia d’olio, insieme al crescente senso d’inadeguatezza.

In questo carosello umano e giro di vite con la voce reale e l’immagine catturata da uno smartphone, Selfie diventa così l’auto racconto (anche se quasi totalmente pilotato e indotto dalle domande precise e ficcanti di Ferrente) di un mondo remoto e in difficoltà che spesso viene raccontato per quello che appare, e troppo poco spesso viene raccontato davvero per quello che è, con la propria voce e il proprio sorprendente amore per la vita, e per il sentimento. Ancora un capitolo in una innovativa veste documentaristica che tenta di strappare la Napoli di Gomorra e dintorni ai suoi cliché, per incontrare e raccontare “dal vivo” quelle cose belle che troppo di frequente viaggiano con la zavorra pesante e l’etichetta predefinita delle cose brutte.

Regia - 3
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3
Sonoro - 3
Emozione - 4

3.4