Piccole donne (1994): recensione del film di Gillian Armstrong

Terzo film sonoro tratto dal capolavoro immortale di Louisa May Alcott, Piccole donne, della regista australiana Gillian Armstrong, cattura grazie all’attenzione ai dettagli e a un mix riuscito di 'edginess' e malinconia.

Il 1994 è stato l’anno di Pulp fiction, opera maestra di un cinema sensoriale ed eccessivo, ad alto tasso adrenalinico e testosteronico. Nessuno si aspettava allora che Piccole donne, period film dal cast prevalentemente femminile, diretto da una giovane donna, incentrato sulle avventure di quattro sorelle alle soglie dell’età adulta, divise tra paura e desiderio di emanciparsi dall’amorevole accudimento materno e dall’atmosfera giocosa di una casa animata dall’agonismo ludico proprio dei rapporti di sorellanza, potesse funzionare e diventare un successo planetario. 

Un successo tanto di pubblico quanto di critica che oggi, considerati la distanza di ventisei anni e l’aggiornamento a firma di Greta Gerwig, si conferma esempio virtuoso di un cinema che cura scrupolosamente i dettagli scenici, la ricostruzione storica, la qualità delle interpretazioni per restituire al pubblico, con rispetto devoto per il classico, non soltanto una lezione di femminismo, ma anche – e, forse, soprattutto – uno squarcio fedele sulla vita di ragazze di finzione che potrebbero essere reali e che, nella verità delle loro ambivalenze emotive, sono ancora in grado di guidare, senza edulcorarne la fatica, le più giovani verso la conquista dell’indipendenza e della gioia di vivere, pur e soprattutto nelle avversità. 

Piccole donne (1994): una sensibilità naturalistica di stampo romantico si fonde con la cura estrema dei dettagli scenici

Le quattro sorelle March rivivono grazie a Winona Ryder, Trini Alvarado, Claire Danes, Kirsten Dunst (nella versione adulta, interpretata da Samantha Matis)

E, se è inevitabile assumere la postura della comparazione, dal momento che questo 2020 cinematografico ‘interrotto’ è stato indubbiamente anche l’anno delle Piccole donne di Greta Gerwig, non è detto che nel confronto con l’epigono sia il precursore a perdere. Il riadattamento più recente declina le storie di Jo March e delle sue sorelle in senso pragmaticamente americano – il femminismo è questione di diritti, di possibilità, ma anche di soldi –, mentre, in Piccole donne del 1994, forse anche perché la regista Gillian Armstrong è australiana, la sensibilità naturalistica per le rispondenze tra paesaggio e moti intimi è più accentuata e romantica. 

In entrambe le opere, il portato rivoluzionario del libro è non solo conservato ma esaltato: Piccole donne è un grande romanzo per ragazze, il cui respiro universale non si è affievolito ma intensificato con il tempo. I due film, quello della Gerwig mediante la de-strutturazione cronologica, quello dell’Armstrong tramite l’innesto di inserti che ricostruiscono la biografia di Louisa May Alcott, rileggono a loro modo la fonte valorizzando, nella traduzione del linguaggio letterario in linguaggio filmico, l’attualità – potremmo azzardare, l’eternità – del suo messaggio femminista, se per femminismo intendiamo l’incoraggiare incessante dei talenti e dei desideri d’avventura e di affermazione propri delle bambine e delle donne. 

Un film che si sostiene sulla grande prova di Winona Ryder, interprete perfetta delle contraddizioni temperamentali di Jo March

Il professore di tedesco Friedrich Bhaer è, nell’adattamento di Gillian Armstrong, interpretato da Gabriel Byrne.

Winona Ryder, nei panni di Jo March, capobranco della cucciolata a cui il film della Armstrong concede un ruolo più spiccatamente protagonistico rispetto a quanto faccia il film della Gerwig, riesce a trovare la sintesi tra più tratti del personaggio: l’indecisione tra una grammatica psichica maschile e una femminile; l’intellettualismo inquieto, ora creativo ora ripiegato; l’eccentricità sfumata; il sentimento di disadattamento ora fiero ora sofferente; l’inclinazione allo struggimento e, man mano che passano gli anni, alla malinconia, una malinconia, però, non mesta o disincantata, ma sempre e irriducibilmente combattiva. 

Il mix tra questi caratteri della Jo March di Winona Ryder s’estende al film tutto, in un rapporto di felice simbiosi tra la protagonista dell’opera e l’opera stessa. Piccole donne del 1994 è, così, un racconto filmico venato di una riposta amarezza, acceso dalle agitazioni sentimentali e dalle ambizioni delle sorelle March, ma anche dominato da un accento uggioso, pervaso da una segreta oscurità: la perfetta congiuntura di un sottofondo dark con una svasata quanto pervasiva malinconia è, a ben guardare, una delle ragioni principali della sua longevità e dell’impossibilità, ancora oggi, di archiviarlo.  

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 5

4.3