Bif&st 2023 – Percoco – Il primo mostro d’Italia: recensione del film

Un'indagine sociologica e psicologica, retta quasi interamente dalla disarmante bravura di Gianluca Vicari e dalla regia "ingessata" di Pierluigi Ferrandini. Percoco - Il primo mostro d'Italia è al cinema dal 17 aprile 2023.

La mano insanguinata, l’acqua corrente che tutto lava via, benedicendo macabramente la nascita di un essere nuovo, finalmente libero. Questa è la profetica sequenza iniziale di Percoco – Il primo mostro d’Italia, l’incipit che detta la linea guida di una pellicola in cui il marcio è sempre occultato da un’apparenza che dovrebbe sembrare impeccabile.

Il regista e sceneggiatore Pierluigi Ferrandini prende le mosse da un fatto realmente accaduto a Bari nel 1956, affidandosi alla maniacale ricostruzione fatta da Marcello Introna nel romanzo Percoco (pubblicato nel 2012 da Il Grillo Editore e nel 2016 da Mondadori) e mette in chiaro fin da subito che parlerà di un essere raccapricciante. Lo spettatore non ha dunque scampo, sa già chi è il cattivo, impara fin da subito a definirlo tale e anche se non vede nulla può immaginare.
Non serve urlare gli appellativi apparsi sui giornali dell’epoca in cui Franco Percoco veniva definito “la Belva di via Celentano” o “il mostro di Bari”; ogni dettaglio ci induce a idealizzare il mostro e, man mano che il minutaggio scorre, la repulsione si converte quasi in comprensione. Lo spettatore non giustifica ma adagio capisce che dietro il primo stragista familiare del Bel Paese c’è una tomba da profanare, un sepolcro in cui vive nell’eternità di un periodo più idealizzato che vissuto (parliamo degli anni del boom economico) una società avida di apparenze, perfezione, lusso e bellezza.

percoco il primo mostro d'italia recensione cinematographe.it

Il film, presentato in occasione del 14° Bif&st e al cinema dal 17 aprile 2023 con Altre Storie, inizia a narrarci la vicenda di un Franco (interpretato da Gianluca Vicari) che si è appena tolto i panni di studente e figlio modello, ovvero dopo la fatidica notte tra il 26 e il 27 maggio 1956, quella in cui stermina la madre, il padre e il fratello Giulio, affetto dalla sindrome di Down, con un coltello da cucina. Ma tutto questo, dicevamo, non si vede, lo si ricostruisce lentamente attraverso le chiamate insistenti, le domande dei vicini, le lettere. Più il protagonista si sente col fiato sul collo più chi guarda dall’esterno reperisce informazioni preziose sul suo vissuto, sulla tragedia che lo attraversa dall’interno e che lo costringe palesemente a indossare una maschera che non vorrebbe.

Una maschera, però, Franco Percoco la vorrebbe a prescindere, solo che sarebbe aderente a quel modello di bella vita che va tanto in voga: ristoranti di lusso, bordelli, feste, abiti eleganti. Un’esistenza che ricalca i contorni della perfezione e che non può che avere una scadenza imminente, fissata quasi coscientemente nell’attimo stesso in cui dichiara il giorno in cui i genitori faranno ritorno dal soggiorno a Montecatini.
Il mostro che si annida in Percoco gioca a nascondino con quel suo lato caratteriale assetato di libertà, eppure nulla è davvero libero nella Bari ingessata in cui la vicenda si svolge.

Bari e il taetro-gabbia di una mentalità opprimente

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Ferrandini disegna, sulla mappa squadrata della città e dentro i palazzi, la prospettiva limitata di una società così proiettata verso il benessere futuro da non accorgersi del malessere presente. Una società che pretende perfezione in tutte le sue forme e nella quale è facilissimo trovarsi a disagio persino dentro la propria pelle. Dentro la pelle di celluloide che il regista tesse, avallato dalla fotografia di Filippo Silvestris e dal montaggio di Mauro Ruvolo, ci troviamo per la verità come trascinati nelle dinamiche tecniche di un film dai toni retrò.
Proviamo fastidio e sentiamo il fetore vomitevole che ci assale nelle sequenze in cui la macchina da presa ci costringe a convivere in casa con Franco Percoco e (a nostra ideale insaputa) con i cadaveri dei suoi cari, lasciandoci imbrigliare nei dettagli delle foto, nei riflessi, tra le trame delle tende che profumano di stantio. L’atmosfera è satura di orrore ma nessuno lo vede: la casa è come un corpo in decomposizione e più il tempo passa più quell’incubo della verità diviene inevitabile.

L’interpretazione di Gianluca Vicari regge tutta la mostruosità di Percoco

A soffocarci ulteriormente è però l’interpretazione di Gianluca Vicari sulla quale si basa, potremmo dire, l’intera credibilità del lungometraggio. L’immobilità cucita sul volto, lo sguardo assente e piatto di chi teme che qualcuno possa affacciarcisi dentro. L’attore si veste di impaccio, di disagio, di rivoltante crudeltà, annullando la sua natura umana per dare spazio al male puro e inevitabile che alberga in tutti noi.
Vicari lo cerca, lo trova, lo doma affinché lo spettatore possa vederlo tatuato sul suo corpo, avendo l’impressione di poterlo tenere a distanza di sicurezza e così facendo ci dà modo di studiare da vicino il male e di capire che, in fondo, l’epilogo di Franco Percoco era inevitabile.

Percoco – Il primo mostro d’Italia: valutazione e conclusione

Attraverso Percoco – Il primo mostro d’Italia Pierluigi Ferrandini porta sul grande schermo un’indagine sociologica e psicologica. Se la trama ci dirotta verso la storia di un assassino, la ragione ci spinge a cercare i motivi di un gesto così folle nelle pressioni che attanagliano il protagonista, nella ricerca smodata di una felicità effimera, sempre troppo vincolata ai dettami esterni e perciò vacua.
Un film che forse poteva spingersi oltre ma che in fondo, restando sulla lastra apparente della superficie, ci dona la sensazione di inchiodarci nell’abisso del malessere, appiccicandoci addosso l’infausta sorte di Franco Percoco, figlio deforme di un tempo tiranno.

Oltre alla titanica bravura di Vicari, nel film prodotto da Altre Storie con Rai Cinema non manca (al netto di qualche interpretazione un po’ “fastidiosa”) il sostegno di un cast valido composto da Giuseppe Scoditti, Rebecca Metcalf, Federica Pagliaroli, Laura Gigante, Francesca Antonaci, Fabrizio Traversa, Antonio Monsellato, Pinuccio Sinisi, Raffaele Braia, Pietro Naglieri, Chiara Scelsi, Elena Cantarone, Michele Mirabella.

Vanno menzionate le musiche originali di Christian Lindberg (la consulenza musicale è invece di Giovanni Marolla; il suono in presa diretta di Piero Parisi, il montaggio sonoro di Federico Forleo e Mauro Ruvolo), i costumi di Magda Accolti Gil, la scenografia di Walter Caprara e il contributo di Alessandro Stellari come aiuto alla regia.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 4
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.8