Berlinale 2019 – Öndög: recensione del film di Quan’an Wang

Durante il primo giorno della Berlinale ha debuttato il film Öndög del regista Quan'an Wang, ambientato nell'inospitale steppa mongola. Ecco la recensione

C’è una ragazza morta nella steppa mongola. È nuda, distesa a pancia in giù e il suo cadavere si confonde con l’erba irta, secca e gelata che la circonda. È inerme come il paesaggio che le fa da cornice, un paesaggio selvaggio nel vero senso del termine, nel quale corrono cavalli indomiti, greggi di pecore e una donna su un cammello che i suoi compaesani chiamano Dinosauro. Queste sono le premesse di Öndög, film che ha debuttato in concorso alla Berlinale 2019 nella sua giornata di apertura.

Il ritrovamento del corpo serve da avvio per il resto della narrazione quando la polizia del posto si vede costretta ad avviare le indagini. A guardia della scena del crimine viene lasciata una recluta che avrà il compito di controllare che tutto rimanga immutato. Il ragazzo però non conosce la zona, è inesperto e nella steppa ci sono i lupi. Per assisterlo e proteggerlo arriva una mandriana armata di fucile.

Öndög: il film di Wang Quan’an presentato alla Berlinale 2019

Öndög Cinematographe.it

Öndög è diretto, scritto e prodotto da Quan’an Wang che approfitta di uno sfondo suggestivo per raccontare una storia morbosamente noiosa dopo l’altra. Sembra un commento lapidario? Lo è, ma certe volte le mezze misure vanno lasciate allegramente da parte. Öndög è un racconto pazzesco dal punto di vista visivo. Wang ha usato luce del sole, lo scuotersi dell’erba e la crudezza della natura in maniera accorta e magistrale, dimenticandosi che la bellezza, quando si parla di regia, non è tutto.

Non bastano inquadrature acchiappa-desktop per accontentare lo spettatore che si ritrova a chiudere gli occhi qualche volta di troppo durante il film, preso da un assopimento siderale. Öndög parte dal ritrovamento di un cadavere per raccontare le indagini di una polizia buffa e incompetente; ci spiega lo stile e la volontà di vita di una donna selvaggia e indipendente che nessun uomo può controllare, a meno che sia lei a volerlo. Ci racconta la violenza della natura e di un’umanità che deve uccidere con le proprie mani per mangiare.

Wang, però, non riesce a essere fedele fino in fondo al suo desiderio di mostrarci la crudezza e la natura nel suo senso più stretto. Ci mostra, vivido e iper-reale, il parto di una vacca, ma esita nel mostrarci l’atto sessuale tra un uomo e una donna. Ci costringe a puntare gli occhi morbosamente sullo sventramento di una pecora, mentre le sue viscere vengono estratte e manipolate, ma lo schermo si fa sfocato quando un medico sta per compiere un’autopsia sul cadavere sconosciuto.

Öndög è uno splendido esercizio di stile, ma non basta

Öndög è fatto di scelte registiche confuse, momenti ridicoli e pieni di dramma. È pregno di una cultura mongola interessante e tutta da scoprire, ma si perde nel bicchier d’acqua dell’esercizio di stile. Ci colpisce con la storia di un mondo lontano dagli usi occidentali, convincendoci che certi sentimenti e stati d’animo, però, sono universali. E mentre stiamo valutando l’interessante punto di vista di un regista che, in fondo, ha già vinto in passato l’Orso d’oro (nel 2007 con Il matrimonio di Tuya) ci accorgiamo che stiamo fissando l’orizzonte della steppa da qualche minuto, in attesa che qualcosa di manifesti. Oppure, ancora meglio, stiamo assistendo a una conversazione lapidariamente noiosa tra due commissari di polizia.

È un peccato che Öndög non riesca ad andare oltre la sua innegabile bellezza estetica. Forse tocca allo spettatore superare il trauma iniziale, risollevare le palpebre cadenti e godersi il panorama. Forse.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 4.5
Recitazione - 1.5
Sonoro - 1.5
Emozione - 1.5

2.2

Tags: Berlinale