Nuestra Tierra: recensione del documentario di Lucrecia Martel, da Venezia 82

Nuestra Tierra non è solo la cronaca di un delitto. È l’incubazione visiva di un tempo collettivo nel cinema del reale: nove anni di attesa processuale, secoli di spoliazione. È un canto senza armonia, dove le immagini non spiegano, ma esondano. Martel non ricompone — frantuma.

Nuestra Tierra diretto da Lucrecia Martel, nella sezione Fuori Concorso della Mostra del Cinema di Venezia 82, rappresenta il  margine più vivo del cinema: quello che il cinema scrive, l’immagine ingrandisce e restituisce. La regista attraversa il crinale tra memoria e materia, e lo fa con la furia quieta di chi ha imparato a guardare l’orrore negli occhi senza distogliere – mai- lo sguardo. Il suo primo documentario, si rivela, non un esercizio di genere, né un’aggiunta alla filmografia dell’impegno piuttosto, una ferita aperta — visiva, sonora, etica — che si impone come corpo politico e contemporaneamente cinematografico .

Il cinema del reale: un processo all’impunità delle immagini

Nuestra Tierra; 
Cinematographe.it

Il film nasce dal sangue e dalla terra. Quella di Javier Chocobar, leader della comunità indigena di Chuschagasta, ucciso nel 2009 da un possidente bianco e due ex poliziotti nel nord dell’Argentina.
Un’esecuzione a cielo aperto, documentata da un video che è testimonianza e trauma, ripresa e cicatrice. Chocobar cade nel silenzio interrotto dal crepitare di armi e voci. Cade come cade la civiltà ogni volta che la proprietà viene elevata sopra la vita.

Ma Nuestra Tierra non è solo la cronaca di un delitto. È l’incubazione visiva di un tempo collettivo: nove anni di attesa processuale, secoli di spoliazione. È un canto senza armonia, dove le immagini non spiegano, ma esondano. Martel non ricompone — frantuma.

In questo senso, la regista si inserisce in un filone che ha già tracciato solchi profondi nella geografia filmica argentina: quello del cinema del reale, che da fine anni ’90 si è fatto voce delle ferite non rimarginate, degli spazi negati, delle memorie sepolte. Un cinema dove la camera si fa corpo politico, come nei lavori di Andrés Di Tella, che attraverso l’autobiografia ha esplorato i limiti della rappresentazione della memoria, o nei documentari etnografici e ancestrali di Mercedes Gaviria Jaramillo, in dialogo con il trauma della Storia. Un percorso già delineato da opere cardine come Los Rubios di Albertina Carri o La Libertad di Lisandro Alonso, dove la soglia tra finzione e realtà si dissolve in una ricerca sul tempo, sul gesto, sul territorio.

Documentario accusatorio 

Nuestra Tierra si distingue. Martel non osserva ma ricostruisce quattro secoli di storia della comunità indigena, piegata da una colonizzazione che non ha mai smesso di reclamare, sfrattare, cancellare. Lo Stato, nel film, non è istituzione, è fantasma, burocrazia cieca, mutismo legalizzato. Violenza linguistica: c’è una giustizia che si misura nei tribunali, e una che si misura nel cinema.
Martel sceglie il secondo spazio per dire ciò che il primo ha taciuto. Le sue immagini non sono decorative, ma rivelatrici. Spogliano. Denunciano. Accendono.
Nuestra Tierra è un’inchiesta che non cerca colpevoli, ma complici: lo spettatore incluso.

Nuestra Tierra: valutazione e conclusione

In Nuestra Tierra non c’è alcuna retorica della denuncia. La narrazione è asciutta, eppure gravida. Ogni silenzio vibra. Ogni campo lungo è un grido. Ogni dettaglio, una prova. La terra non è solo spazio: è organismo vivo. È pelle, è suolo nervoso che raccoglie il sudore, il sangue, le orme. È teatro e testimone, mai sfondo. Martel sfiora la fotografia con la leggerezza iconografa e l’urgenza militante. Il suo montaggio scava la discussione cinematografica. Le sue voci professano. Il documentario si fa così rito laico, liturgia dell’insopportabile, mappa del rimosso. È un film che non proietta la verità, la incarna.

E allora la domanda diventa antropologica o filosofica, primitiva, sacra: Chi comanda la terra?
Chi può arrogarsi il diritto di segnare confini sull’indefinito? Di trasformare cave in prigioni, rocce in prove di forza, e una cultura in maceria giuridica? Nuestra Tierra non risponde, ma rovescia il tavolo. Il cinema -qui- morde. È reporter dell’eccesso, etica dell’incrinatura. È il luogo dove lo sguardo vacilla e, proprio per questo, si fa umano. La terra non è possesso. È specchio. Ci verticalizza, ci restituisce la postura, ci ricorda che l’unico vero radicamento è nella memoria condivisa. La sua superficie — arsa, spaccata, saccheggiata — è lo schermo stesso su cui si proietta questa storia di sangue e silenzio.

Con Nuestra Tierra, Lucrecia Martel varca il confine tra il linguaggio e il corpo.
Abbandona il filtro della finzione per aderire al reale, ma lo fa con la grazia scorticata della poesia più ruvida. Firma un film che non si limita a esistere: resiste. E nel farlo, si iscrive nel solco del reale che si attraversa come un nervo scoperto. Un’opera che non ci chiede empatia, ma responsabilità. Che non cerca spettatori, ma testimoni. E che ci lascia, alla fine, con una certezza: la terra non è di chi la comanda. La terra è di chi la ama. E di chi, come Martel, documenta la frana prima ancora del crollo.

Nuestra Tierra è il primo documentario diretto dalla regista argentina Lucrecia Martel. Presentato per la sezione Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 82.

 

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.4