Venezia 77 – Notturno: recensione del film di Gianfranco Rosi

Un viaggio nel dolore e nella solitudine firmato da Gianfranco Rosi.

Un documentario originale, potente, molto duro: così si presenta Notturno di Gianfranco Rosi, un’opera di difficile definizione e collocazione. A conti fatti, si può dire che la parola documentario sia davvero riduttiva o, se non altro, sicuramente in parte inadatta nel delineare il suo muoversi tra la realtà e la riproduzione di essa.

Siria, Iraq, Kurdistan, Libano: questa la mappa degli spostamenti di Gianfranco Rosi dal 2017 ad oggi, luoghi scossi da una violenza ributtante, tra guerre civili e terrore, scontri tra fazioni che rinverdiscono stragi di decenni o anche secoli addietro, pozzo senza fondo scavato dal fondamentalismo islamico, dall’ISIS, dalla fredda crudeltà di gente come Erdogan o Assad e dell’Occidente. Notturno mostra tutto questo ma anche molto di più: ci mostra la realtà quotidiana di un Medio Oriente degradato, abbandonato a se stesso, poverissimo, dove ogni giornata è una lotta per evitare il dolore, per sopravvivere ad esso. E dove si è tra l’incudine ed il martello della storia.

Notturno è un viaggio nel dolore e nella solitudine

 

Le soldatesse curde, i bambini strappati dalle mani dello stato islamico, madri che piangono figli e figlie spariti nel nulla, macellati dai loro carnefici e poi la quotidianità, il vivere faticoso e ramingo di ragazzi di strada e morti di fame in cerca di salvezza. In Notturno c’è la guerra, ma è una guerra che rimane sullo sfondo, che vive dei suoni, bagliori lontani, è una guerra che pare sfuggire o essere sempre di qualcun altro, come in una sorta di Deserto dei Tartari. Essa è il recinto dentro cui Rosi cuce una narrazione per immagini che abbraccia i ricordi, le azioni di chi è passato indenne o quasi per l’uragano di morte, o ne aspetta l’ennesima visita con rassegnata pazienza.

Emerge la memoria storica potente, eterna, di un Medio Oriente abitato da spettri di guerre mai viste, di sofferenze dei padri, dei nonni, passate di mano in mano, in cui la Patria (concetto astratto e assurdo) è invocato solo dai pazzi. Perché solo loro possono curarsene. Gli altri pensano a sopravvivere, al domani che si presenta senza prospettive se non quelle di scampare alla fame, alla bufera, diventare tutt’uno con una natura che pare accogliere i sopravvissuti scappati da una civiltà fallita e diroccata.

Un documentario che apre la finestra su un mondo distante dal nostro

Notturno Cinematographe.it

Notturno regala però anche momenti di bellezza, di tenerezza, ma costante è l’assedio della realtà, così come mostrarci un mondo completamente distante dal nostro, completamente diverso per natura e anche per il modo in cui si vive la realtà, la si interpreta. La cosa più straordinaria è la diversa concezione del dolore, della sofferenza, che ha gli occhi di bambini che ne parlano come si trattasse di un sogno, di qualcosa di lontano e senza radici.

Quel qualcosa che scorre nei lamenti musicali di vedove e madri senza figli, nella fame combattuta con la caccia di frodo da ragazzini cresciuti troppo in fretta, nel silenzio di camerate piene di quelle soldatesse che il mondo ha esaltato e poi abbandonato alla furia turca. Canti, melodie, il teatro di pazzi che parlano di un mondo di pazzi è meno folle della realtà di miliziani che picchiano bambini, impiccano donne, tagliano teste, o perlomeno ha più senso di chi cerca di darci un inizio ed una fine a quest’odio, allo scivolare perenne verso il basso da parte di terre massacrate.

L’Occidente è colpevole e assente

Nel documentario di Rosi, l’occidente (inteso come il motore del caos e dell’orrore che regnano in quella che fu la culla della civiltà, dai tempi del colonialismo fino ai decenni del XX secolo in cui esso foraggio e creò regimi totalitari e monarchie assolutiste) non appare.
Manca quindi il colpevole di quel caos di inizio millennio di cui riviviamo fasi salienti in video, filmati d’epoca, nel ricordo che Rosi ci offre dell’origine quasi dimenticata (pare incredibile) del recente inferno in quella terra dove religioni e credo differenti si scontrano da secoli.

Notturno alla fin fine è soprattutto questo, se ci si pensa: un dito puntato contro di noi, contro il mondo dell’ovest, contro ciò che abbiamo fatto, creato, senza curarci della nostra ignoranza verso un universo di cui non sapevamo e continuiamo a non sapere niente. Non vi è soluzione né vi è altro che lo sguardo umano, privato, l’universo micro per parlarci del macro, del bene seppellito con ossa che sono polvere in pochi istanti, lì dove una volta era il luminoso regno di Ciro il Grande. E dove oggi invece la speranza è morta.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.5