RomaFF14 – Negramaro. L’anima vista da qui: recensione
Negramaro. L'anima vista da qui è il docufilm che, più di esplorare gli ultimi anni della band, sembra un lungo spot per l'uscita dell'album Amore che vieni.
Negramaro. L’anima vista da qui è il docufilm sugli ultimi tre anni di carriera del famoso gruppo musicale. O, almeno, dovrebbe. Dovrebbe non tanto per la durata complessiva dell’opera, che con i suoi quarantuno minuti si esprime con i tempi del mediometraggio, né perché il riferimento al periodo dell’incisione dell’album Amore che vieni, inizialmente programmato, sfocia o si annulla all’interno della pellicola. Il suddetto condizionale, usato per esprimere le evidenti perplessità che l’opera suscita, sottintende la scarsa riuscita di un’operazione che non dà alcun input per cui interessarsi a questa specifica manovra pseudo-cinematografica, che sembra un lungo spot promozionale per l’uscita del disco, senza però la voglia di investire più di quanto sia necessario in questo tipo di pubblicità.
Salti temporali, concentrazione sbagliata dei tempi sui singoli argomenti di interesse, ricerca di una sfera personale che viene graffiata in superficie, senza mai provare a scalfirla con zelo per arrivare più giù, in profondità. Il realizzatore Gianluca Grandinetti non sembra mettere in pratica gli insegnamenti che lo hanno formato nell’ambito dei videoclip, della musica e della moda, aggiustando piuttosto il materiale privato della band e le sue riprese più o meno professionali, che sembrano non aver trovato neppure il favore del montaggio, visto l’assemblaggio informe e insostenibile che presenta il film per l’intera – e breve – sua durata.
Negramaro. L’anima vista da qui: l’assemblaggio informe e superficiale degli attimi di vita della band
È un’idea strutturata che manca alle fondamenta della sceneggiatura di Negramaro. L’anima vista da qui. Pur volendo riportare solo attimi di vita, quella quotidianità dei componenti del gruppo, tutti divisi tra gli impegni lavorativi comunitari e le singole realtà familiari, la pellicola si convince che basti accozzare insieme il privato in VHS dei protagonisti e aggiungervi le scene rumorose e luccicanti dei concerti per poter funzionare, non considerando il valore di una storia scritta alla base e l’importanza che l’occhio riserva alla magia dello spettacolo.
Ma anche gli istanti sul palcoscenico si manifestano privi di qualsivoglia suggestione, quella che dovrebbe suscitare l’adrenalina e l’incantesimo delle voci e dei riflettori, di cui solo pochi frammenti ne esaltano il gioco di luci e le potenzialità visive. Momenti che, comunque, finiscono per perdersi nel marasma indefinito dell’intero docufilm, i cui argomenti si intrecciano, ripetono, susseguono, rimanendo in ogni caso sempre e solamente sospesi.
Negramaro. L’anima vista da qui: nessun filo narrativo coerente, per una band che viene voglia di scoprire
Dalle coincidenze davanti le quali la vita ci pone, passando alla creazione del nuovo album, fino ai mesi di distanza che hanno segnato il bisogno di ritrovarsi e ricominciare ancora più forti. La pellicola affronta l’importanza di un testo come Fino all’imbrunire arrivando alla malattia improvvisa di Lele Spedicato, tutto questo nella maniera più scollegata che un doc o qualsiasi altro tipo di prodotto avrebbe potuto fare, giungendo perfino all’inserimento fatto con pressappochismo di immagini ripetitive e banali. Attimi la cui sostanza diventa superflua perché non riconducibile a nessun filo narrativo coerente e reso stimolante da seguire, come se Grandinetti avesse avuto a disposizione soltanto quel poco, insoddisfacente materiale e non fosse riuscito a trovare nessuna maniera migliore per plasmarlo.
Un pregio, però, è da riconoscere a Negramaro. L’anima vista da qui: il desiderio di poter scoprire veramente, utilizzando altri mezzi, le origini e la maturazione di questa band italiana. Partire dallo studio scavato nella pietra e addentrarsi per i primi tour nazionali dentro a un furgone dai sei agli otto posti. Un racconto del reale che seguisse una via più rettilinea dal principio fino al punto di arrivo, per ripercorrere quei momenti soltanto accennati nel docufilm di Gianluca Grandinetti e che avrebbero meritato uno studio maggiore. Chissà se questa opera può essere considerata una prova tecnica per qualcosa di più grande. Magari un documentario vero e proprio su uno dei gruppi musicali più conosciuti nel nostro Paese.