Bif&st 2023 – Mia: recensione del film di Ivano De Matteo

Al cinema dal 6 aprile 2023 dopo essere stato presentato alla 14ma edizione del Bif&st, Mia è un film doloroso e necessario, una visione obbligatoria!

Mia non è un film, è un pugno che massacra lo stomaco, sale al cuore, esplode. E di quei pezzi ne resta l’ardore, ne resta il fetore. Resta, come un livido, appiccicato nel petto, tra il mento e il sesso, e correre al pronto soccorso non serve, correre al cinema però in questo caso aiuta a realizzare la frangibilità che ci assale, da adulti, da adolescenti, da genitori o da semplici spettatori.
Il film diretto da Ivano De Matteo è tutto l’amore che avete mai provato, richiesto, concesso e nel momento stesso in cui accettate di mettere piede in sala è bene che sappiate che non si torna più indietro e che vi farete male, tanto male. Ma come in tutte le storie, quelle che contano davvero, sarà un dolore catartico, necessario, da accogliere con urgenza dentro di voi. Sentirete l’istinto di sputarlo ma lo terrete lì, come un nodo alla gola, affinché vi ricordi la premura di comunicare, di responsabilizzare, di agire e di capire.

Mia e il cinema genitoriale di Ivano De Matteo e Valentina Ferlan

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Ivano De Matteo e la compagna Valentina Ferlan si cimentano in un’impresa cinematografica e genitoriale in cui la stesura della sceneggiatura diviene terreno di elaborazione delle paure più recondite, foglio sul quale rovesciare le domande senza risposta e in cui condividere l’inadeguatezza a cui madri e padri si ritrovano a far fronte quando i propri figli vengono invasi dalla tempesta ormonale dell’adolescenza. In quell’altalena di gioie e dolori in cui ogni giorno sa essere meraviglioso e tremendo insieme, Ivano e Valentina si addentrano mano nella mano (come da trentaquattro anni a questa parte), tremanti e coscienti di non avere mezzi mai abbastanza esatti per comprendere un linguaggio che muta repentinamente. Per tale ragione Mia diviene quasi un lavoro di gruppo, un laboratorio di emozioni ed esperienze in cui l’idea stessa di confezionare un film potrebbe benissimo passare in secondo piano, riducendosi a semplice pretesto per focalizzarsi sulla sfera più preziosa della nostra società: i giovani, così duri e così fragili.

La regia (in)discreta di Ivano De Matteo

La macchina da presa è un narratore interno attento e (in)discreto, entra nelle case e attraversa le strade di Roma sintonizzandosi sui sentimenti dei protagonisti: accelera, rallenta, si sofferma a lungo sui dettagli, sfoca i contorni per dare spazio ai bisogni di chi dentro quella pellicola ci vive. Si, ci vive! Perché il cinema di De Matteo non si limita a parlare di famiglia e quotidianità bensì la ricompone nel flusso immortale di un lungometraggio, sradicandola dalla finzione per consegnarcela identica (seppur diversa) a ciò che ci è più familiare.
La storia di Mia è quella di una famiglia come tante: due genitori amorevoli, autista di ambulanze lui (Edoardo Leo), casalinga lei (Milena Mancini) con un’unica figlia a cui cercano di non far mancare nulla, stando attenti ai piccoli guai a cui può andare incontro, dal fumo all’alcool fino alle cattive compagnie. Cosa accade però quando quella ragazza si innamora del tipo sbagliato? Uno di quelli che la fanno sentire speciale, usandola e poi buttandola via? Il disagio che attraversa Mia, meravigliosamente interpretata dall’esordiente Greta Gasbarri, arriva inevitabilmente a sconquassare anche la vita dei suoi genitori, limando dall’interno i loro mostri, le loro incapacità naturali che pesano come macigni sul dorso delle aspettative.

Mia mostra la dura e al contempo leggerissima vita adolescenziale. I video su TikTok, le feste, le partite di pallavolo, la scuola, i piercing, le maschere di bellezza fatte in casa e i compiti di greco da recuperare sono testimonianze di un tempo che è contemporaneo ma che ci fa anche viaggiare indietro, nel tempo della fanciullezza individuale. Nonostante spesso lo spettatore abbia modo di calarsi nelle mente e nel cuore di Mia, il film di De Matteo non è un semplice teen drama bensì un’opera di formazione in cui al punto di vista dei figli si alterna quello dei genitori: due sguardi che si compenetrano per tentare di capirsi meglio, in uno sproloquio di incomunicabilità capace di bruciare l’anima.
Palesandosi nei confini di un nucleo familiare, l’opera si prende la naturalezza di lasciare aperto il recinto del mondo fuori, affinché possa a suo modo contaminare, di bellezza o brutalità. Dopotutto la famiglia è la particella più piccola della società, il terreno in cui sperimentare l’umanità nelle sue sfaccettature più ataviche ed evolute e questo gli autori lo sanno e ne sfruttano la carica emotiva e ideologica per coccolare lo spettatore con tante piccole accortezze, per poi farlo precipitare giù da un balcone e lasciarlo rantolante al suolo, tramortito da un colpo basso inatteso, incapace di reagire.

Una delle migliori interpretazioni di Edoardo Leo, con un’immensa Milena Mancini

Perché Mia non parla solo delle fragilità che attanagliato gli adolescenti ma anche e soprattutto di quelle che tormentano i genitori, consapevoli di dover stare al loro posto mentre i propri figli vanno incontro al dolore più acuto. Stare lì, a distanza di sicurezza, come se fossero colpevoli ed estranei, cercando la parola più delicata, che funga da faro nella tempesta. Stare lì, senza poter evitare il crollo, ma pronti a riattaccare i pezzi di chi amano più di loro stessi. Sergio e Valeria potrebbero essere chiunque, probabilmente in qualsiasi parte del mondo e in qualsivoglia tempo: i loro volti e i loro corpi sono solo degli avatar su cui si cuciono addosso i sentimenti di chi ama incondizionatamente.
Se tale impeto fluisce, però, è di certo grazie a un’interpretazione scrupolosa che intaglia nella voce, negli sguardi e nei gesti tutti i sentimenti necessari a redigere la grammatica di una tragedia umana. Edoardo Leo ci regala forse la sua prova attoriale migliore, scomponendo la sua stessa personalità e riuscendo a interloquire col suo aspetto di padre dolce, premuroso e divertente, con quello di marito attento, ma anche di giovane desideroso di approcciarsi all’altro sesso. In lui si compone e ricompone la gelosia nel suo aspetto più tollerante e genuino e prende forma il furor accecante di chi ha sete di vendetta, di chi proprio non sa darsi pace, non riesce a svincolarsi dalla palla di veleno che lo afferra per i piedi e gli impedisce di guardare, se non oltre, altrove. E questa incapacità, urlata a squarciagola, lo spettatore la sente sulla pelle e l’abbraccia, la fa propria, accarezzandola per tentare di dargli e darsi sollievo, probabilmente nel tentativo di spalleggiare la gigantesca forza di Milena Mancini che nella sua figura di madre condensa tutte le anime femminili, facendosi ponte di congiunzione tra padre e figlia, immettendo tenerezza nel dolore, colorando la disperazione di speranza, senza inarcare mai la schiena dinnanzi alla possibilità di fallimento.

Se Sergio e Milena rappresentano il mondo adulto, la coppia composta da Mia e Marco si fa portavoce del mondo adolescenziale in qualità di vittima e carnefice, anche se, a indagare bene, sono entrambi presi in ostaggio da un sistema che dà per scontato che a 15 o 20 anni si possa già concepire (sempre e comunque) l’idea di rispetto ed essere altresì capaci di dosarlo in relazione ai propri impulsi.
Il personaggio di Greta Gasbarri – che in questa sua mirabolante prima prova davanti alla macchina da presa regala la tenerezza, la paura e il disagio – si fa fotocopia di tutte le ragazzine del mondo, sedotte e abbandonate da un’idea di amore malato. È anche nostra la sua vergogna, il senso di colpa che si fa asfissiante. Parimenti, Riccardo Mandolini si tatua addosso gli stilemi sfacciati di un bulletto di periferia e allo spettatore risulta fin troppo semplice riversare sul suo Marco odio e disprezzo, comprendendo altresì quanto il nostro mondo sia ancora troppo maschilista.

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Questo è angosciante, nella visione di Mia, questo ci fa sentire risucchiate, consumate fino al midollo e poi sputate via, come se fossimo solo pezzi di carne. Questo ci fa riflettere su quanto l’adolescenza sia ancora un periodo tormentato, nonché il frangente in cui ogni ragazzina impara, spesso sulla propria pelle, l’inferiorità innaturale di essere donna in un contesto che ad oggi non conosce ancora parità, addossando colpe laddove di fatto non ci sono. Non esiste infatti colpa nell’amore che vediamo sullo schermo quanto nel modo in cui quel rapporto viene usato, svuotato e poi umiliato. È questo uno degli schiaffi che riceviamo in volto da Mia, complice una fotografia (firmata da Giuseppe Maio) che compone rime di colori per farci calare nei dettagli dell’esistenza e una colonna sonora puntellata di brani contemporanei, dall’iconica canzone di Noemi (Per tutta la vita) ai brani originali di Lupo (Occhi e Balla) e Franco 126; parole che danzano, incastrandosi nella soundtrack del maestro Francesco Cerasi: un turbinio di note luminose dalle quali lasciarsi accarezzare e all’occorrenza schiaffeggiare.

Mia: valutazione e conclusione

Guardare Mia è dunque come attraversare una ferita aperta da un proiettile: fa male ma è necessario estrarre la causa primordiale del dolore, comprenderne le origini, esaminarle. La sceneggiatura è affilata, la regia di De Matteo (aiutato in fase di montaggio da Giuliana Sarli) puntuale, giovanile, a tratti reportistica; la colonna sonora del già citato Cerasi si aggancia scrupolosamente al comparto sonoro curato da Mario Iaquone ed Emanuele Giunta e tutto il comparto tecnico (le scenografie di Sonia Peng, i costumi di Olivia Bellini, il trucco e le acconciature di Marco e Daniela Altieri) provvede a creare l’habitat ideale in cui protagonisti e antagonisti compiono le loro gesta, affidate sul grande schermo alle impeccabili interpretazioni di un cast in cui primeggiano i già menzionati Milena Mancini, Edoardo Leo, Riccardo Mandolini e Greta Gasbarri, affiancati da Alessia Manicastri, Giorgia Faraoni, Giorgio Montanini, Vinicio Marchioni e Melinda De Matteo.

Mia, prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e al cinema dal 6 aprile 2023 con 01 Distribution, è un pugno allo stomaco impertinente: vi incanterà, spezzerà, stritolerà il cuore e per un attimo lungo un secolo penserete di non riuscire più a respirare. Ma poi il pugno adagio si aprirà e la troverete, quella carezza inespressa, la poggerete sul volto mentre torneranno a galla i vostri ricordi, i dubbi, le domande, le soluzioni improvvise. E sostituirete il titolo del film al nome di chi amate (fosse anche solo il vostro!), sarà un’angusta felicità.