Biografilm 2022 – Melting Dreams: recensione

Il documentario di Haidy Kancler che racconta lo sciogliersi dei sogni di tre ragazze afgane, sotto il gelido sole di un'Europa falsamente accogliente.

Haidy Kancler, regista slovena al suo quinto documentario per il cinema, partecipa al Biografilm Festival 2022 con Melting Dreams.
Il film racconta la storia di tre ragazze afgane – Zakia, Fariba e Fatima – che, grazie a un progetto europeo, si possono allenare per diventare istruttrici di sci a Bamyan. Quando le tre hanno la possibilità di andare a studiare, per conseguire il diploma, nella prestigiosa scuola di sci di Stams, in Austria, si rendono conto che l’Europa non è la terra delle opportunità che pensavano.

Melting Dreams: la gara è al centro della storia, ma anche dell’intera esistenza umana

La regista costruisce il documentario utilizzando per lo più un linguaggio narrativo. Vi sono pochi momenti prettamente documentaristici. I più significativi sono le interviste ad alcuni afgani nelle loro tende, lo sfogo dell’istruttrice di sci austriaca, Ines, a favore di macchina, gli stralci di vita nel dormitorio di Stams e l’intervista audio a Zakia. Un voice over/monologo interiore, quest’ultimo, che introduce uno dei leitmotiv del film, la situazione delle donne in Afghanistan. Per il resto tutto è molto studiato in termini di messa in scena e quasi nulla è improntato sul rapporto spontaneo fra dispositivo scopico e realtà, tipico del cinema documentaristico più classico. Dai reiterati setting shot dell’esterno del dormitorio delle ragazze, ai campi lunghi che mostrano i panorami afghano e austriaco, ogni immagine è frutto di un’attenta costruzione che valorizza il racconto, in termini di suspense e di realismo. Risulta evidente che alcune situazioni siano state, anche se in minima parte, ricostruite. Tanto che si nota subito la differente qualità di quelle immagini che, invece, sono state estratte dal flusso del reale attraverso videocamere digitali a bassa risoluzione o cellulari. L’intera operazione appare come un racconto modulato sul topos, caro al cinema sportivo, della gara (qui di sci) vista come evento centrale di un’esistenza umana: il grande sogno da realizzare, per migliorare la propria situazione sociale e anche per affermare la propria identità. All’interno di questa struttura però la regista incastona i racconti in prima persona delle protagoniste, le quali, come in un reality show, si fanno garanti della rappresentazione audiovisiva della loro storia.

In Melting Dreams la Kancler documenta l’incapacità della cultura europea di uscire dai propri paradigmi colonialisti

melting dreams cinematographe.it

Proprio la dinamica del reality show è, infatti, alla base della strategia comunicativa ricercata dalla Kancler. Sin dall’inizio della vicenda di Zakia, Fatima e Fariba, si percepisce la pressione per la prestazione sportiva, che man mano cresce, fino a divenire una pressione rivolta alle capacità di inserimento delle ragazze nel nuovo contesto. Le varie tappe dell’avventura delle tre protagoniste assumono sempre più i connotati di prove da superare. Lentamente coloro i quali dovrebbero aiutarle, come la lavoratrice della ONG e l’istruttrice Ines, ne diventano i giudici, pronte a valutarne oltre che le abilità sciistiche, anche e soprattutto la compatibilità con la cultura occidentale, i suoi standard legali e di efficienza lavorativi e sociali. Paradigmatico a tal riguardo è l’episodio in cui le tre ragazze vengono sottoposte a test fisici che ne decretano la non idoneità per lo sport in questione. In seguito viene attuato, attraverso l’allenamento, un processo di riscrittura del corpo, per così dire, che dovrebbe adattare la fisicità delle tre ai canoni sportivi, ma il cui fallimento, in realtà, decreta la totale incompatibilità con il mondo occidentale di quei corpi, segnati dalle difficoltà di un’esistenza priva dei vantaggi offerti dalle democrazie neoliberali. Attraverso la metafora dell’idoneità fisica allo sport, la regista ci parla di ciò che l’Europa pretende da chi le chiede rifugio, cioè la riscrittura del proprio corpo, appunto e quindi della propria identità.

L’Europa e l’Occidente, per riconoscere a quelle persone, provenienti da contesti non occidentali, anche solo la condizione di rifugiato, pretendono che questi abbandonino le proprie soggettività precedenti, le proprie radici e la propria cultura – e si badi bene è irrilevante ai fini del discorso che tale cultura presenti, ai nostri occhi, anche aspetti problematici, quando non proprio esecrabili. Se ciò non accade, si perde la possibilità di far parte della gara, cioè di entrare in Europa e si viene rispediti a casa. Proprio come quando in un reality a seguito del fallimento di qualche prova o semplicemente della mancata accettazione nel gruppo, da parte degli altri partecipanti, si viene eliminati dal gioco. Con la differenza che, in questo caso, non essere più riconosciuti come giocatori significa tornare allo status di clandestino, mentre la casa dove tornare è un paese martoriato, anche a causa delle scellerate azioni di guerra dell’Occidente.

Il film della Kancler dunque rappresenta un documento dell’incapacità della cultura europea di uscire dai propri paradigmi colonialisti, per cui l’uomo bianco e occidentale, o meglio, in questo caso essendo le protagoniste tutte donne, la donna bianca e occidentale, ha il dovere di emancipare e civilizzare le donne appartenenti alle altre culture. Quel che è peggio è che, in tale quadro interpretativo del reale, neanche l’ipotetica sorellanza di quel femminismo apolitico, sbattuto in faccia alle ragazze da Ines, riesce ad abbattere delle barriere, che si configurano sempre di più come quelle fra due classi di esseri umani completamente aliene le une alle altre.

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Regia
Sceneggiatura
Fotografia
Sonoro
Emozione