Marmalade: recensione del film dal Milano Film Fest 2025
L'opera prima di Keir O'Donnell presentata in concorso alla prima edizione del Milano Film Fest
Un film di rapina, una commedia romantica, un moderno Bonnie e Clyde che preferisce la leggerezza alla tragedia, la risata al colpo di pistola. Marmalade, opera prima di Keir O’Donnell, è tutto questo: una storia d’amore criminale, raccontata con toni grotteschi e tendenze pulp, che gioca con la struttura del noir per renderla pop, a tratti quasi caramellata, fiabesca. L’attore australiano, noto al pubblico per i suoi ruoli in Lost, Apes Revolution e American Sniper, debutta alla regia con un piccolo film che punta su ritmo, sorpresa e stile. La sceneggiatura – firmata dallo stesso O’Donnell – si regge su una struttura a incastro ben congegnata; la fotografia, curata da Polly Morgan, restituisce la dimensione quasi da fumetto del racconto, mentre le musiche dei fratelli Brooke e Will Blair accompagnano il viaggio tra prigione, strade polverose e fughe impossibili. Nel ruolo del protagonista maschile troviamo un Joe Keery particolarmente ispirato e, anche se lontano nel ruolo dallo Steve Harrington di Stranger Things, riesce ugualmente ad evocarne la dolcezza disillusa; accanto a lui Camila Morrone (Il giustiziere della notte – Death Wish, Daisy Jones and the Six) e Aldis Hodge (City on a Hill, Black Adam) completano il trittico che con buona chimica accompagna il racconto all’interno del suo intreccio ricco di sorprese.
Baron & Marmalade

La vicenda prende il via dentro una cella, in un luogo sospeso dal tempo dove le parole diventano merce di scambio e il racconto una forma di sopravvivenza. Baron (Joe Keery), finito in carcere per una rapina andata storta, incontra Otis (Aldis Hodge), pluricarcerato esperto in fughe rocambolesche, a cui comincia a raccontare la propria storia. Una storia che parte dall’amore per Marmalade, ragazza dallo sguardo magnetico e dall’istinto per il crimine, capace di accendere il suo cuore e dargli un motivo per rischiare tutto. Da quel racconto parte il film: una lunga confessione fatta di immagini, ricordi, fantasie, contraddizioni e, forse, anche qualche abbellimento narrativo. Il tono è quello di chi ha bisogno di raccontare per rivivere, per convincere l’altro ma anche se stesso. Marmalade non è solo una fidanzata: è la scintilla e l’alibi, la complice ideale e il centro di gravità di un piano che doveva essere perfetto e che invece si è inceppato. Ma, lentamente, tutto inizia a sfumare: le certezze si sgretolano, le domande si moltiplicano, e lo spettatore si trova invischiato in un gioco dove la verità è sempre un passo più in là.

Chi è davvero Otis? E chi è Marmalade? E soprattutto, chi è davvero Baron, che guida la narrazione come un regista nascosto dietro le sbarre? Il film si diverte a cambiare forma, scomporre e ricomporre il proprio puzzle, mescolando flashback, finzione e realtà con una leggerezza che inganna, perché sotto la superficie colorata si cela un meccanismo ben oliato di ambiguità e sorpresa. I film di rapina funzionano sempre, forse perché offrono una promessa narrativa chiara e appagante: il colpo, la fuga, l’imprevisto, il tradimento, la tensione. Ma funzionano ancora meglio quando riescono a reinventarsi, a contaminarsi con altri generi, ad aggiungere qualcosa di nuovo a una formula collaudata. Marmalade lo fa: prende un impianto narrativo classico, quasi da manuale, e lo filtra attraverso la lente della commedia romantica e del racconto orale, trasformando la cella in una piccola sala cinematografica, dove il pubblico è uno solo – Otis – e lo spettatore è invitato ad ascoltare come se fosse lì, in quel cubicolo di cemento, a lasciarsi catturare da una voce. Il film diverte perché sa di essere un gioco, e lo dichiara: gioca con la percezione, con il punto di vista, con la memoria, e soprattutto con il linguaggio cinematografico, dove il flashback non è semplice ricostruzione, ma diventa confessione, e la confessione, a sua volta, si fa film. Anche la componente sentimentale è tutt’altro che accessoria: da Bonnie e Clyde in poi, la coppia criminale resta un’immagine potente, e in questo caso l’amore è motore, ossessione, giustificazione e condanna. Solo nel finale – che qui si evita di raccontare – Marmalade rivela la sua vera natura, riuscendo a connettersi con una dimensione più attuale, a tratti persino politica, regalando un ultimo colpo di scena che cambia la prospettiva e conferma la forza del racconto.
Marmalade: valutazione e conclusione

Keir O’Donnell, al suo primo film da regista, firma un esordio intelligente e godibile, capace di tenere insieme le suggestioni di un certo cinema americano anni Settanta con una sensibilità contemporanea. Si vede che ha avuto a che fare con la commedia, e che sa come dosare i tempi, i silenzi, le battute, la costruzione dei personaggi. Marmalade è un film che intrattiene e non cede mai alla noia, costruito su una narrazione dinamica, piena di ribaltamenti e piccole sorprese, che tengono alta l’attenzione proprio come Otis resta incollato alle parole di Baron. La cella, come detto, diventa metafora perfetta della sala cinematografica. Non è un film necessario per i temi che tratta e i generi su cui poggia, ma è necessario che film così continuino ad esistere, che trovino spazio e pubblico. Perché serve ancora il divertimento, serve la leggerezza intelligente, servono il sorriso e la sorpresa. E Marmalade li offre con una fotografia curata, una colonna sonora ben calibrata e con una sceneggiatura brillante che è, senza dubbio, il vero punto di forza del film.
Leggi anche Bolero: recensione del film dal Milano Film Fest 2025