Los fantasmas: recensione del film di Sebastián Lojo

Una pellicola malinconica che fa luce nel buio dei sobborghi di Città del Guatemala, dove i fantasmi sono gli emarginati della società, personaggi con vite al limite in cerca di un riscatto. 

Koki (Marvin Navas) è un giovane di bell’aspetto e la sua avvenenza, in accordo con Carlos (Carlos Morales) – proprietario di un piccolo albergo nella periferia di Città del Guatemala – serve ad adescare uomini gay e turisti con cui trascorrere la notte per poi derubarli di portafoglio e denaro. Con un figlio alle spalle e una ragazza con la quale non riesce ad essere del tutto se stesso, Koki sopravvive dedicandosi ad un’attività illecita che presto gli si ritorce contro. Quando una sera viene riconosciuto da uno degli uomini che aveva derubato, Carlos non esita un attimo a voltargli le spalle e a rimpiazzarlo con un altro giovane. Trovare riscatto e un lavoro onesto è dura quando si è uno dei reietti e della società più povera di Città del Guatemala.

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Los fantasmas: gli invisibili di Città del Guatemala

La storia di Los fantasmas di Sebastián Lojo, che sarà presentato in concorso nella sezione Nuove Impronte a ShorTS 2020, è quella di personaggi che vivono esperienze ai margini della società, travolti da un vortice di violenza e illegalità da cui uscire sembra impossibile. I fantasmi a cui allude il titolo della malinconica pellicola di Lojo non sono solo quelli da cui il protagonista Koki dice di essere perseguitato fin dall’infanzia – aspetto che sottolinea le radicate credenze nell’occulto e nel soprannaturale della cultura latino americana – ma sono loro stessi, i personaggi che ruotano attorno a quei non-luoghi mostrati nella periferia di Città del Guatemala. Invisibili a una giustizia sociale che sembra girare troppo a largo dai sobborghi, dove ci si guadagna un pezzo di pane voltandosi le spalle l’un l’altro o facendo a pugni come Carlos, che nel tempo libero s’improvvisa luchador. La triste realtà di chi non ha avuto, forse, le giuste occasioni di riscatto o che è stato privo delle opportunità necessarie a una vita migliore viene messa in risalto dagli ambienti squallidi delle abitazioni e dei club in cui Koki adesca le sue “vittime”, in uno scenario che è in perfetta simbiosi con l’angoscia esistenziale degli stessi personaggi e con la loro perenne frustrazione.

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Una fotografia dalle tinte emozionali e una regia “interiore”

Siamo lontani dalle grandi produzioni e dai budget di Hollywood e in Guatemala fare cinema non è semplice come in altri Paesi, tuttavia il regista riesce a fare un ottimo lavoro raccontandoci la storia di Koki attraverso una regia e un montaggio lenti, statici, che abbracciano l’angoscia esistenziale dei protagonisti della storia esaltandone la profonda solitudine in cui versano le loro vite al limite – numerosi sono i primi piani e i totali immobili, senza alcun movimento di camera. In questo modo è come se il regista esprimesse attraverso le scene riprese la diretta interiorità dei personaggi, calandoci in una sensazione di malinconia e tristezza, a volte velata e altre più esplicita. Ottimo il lavoro alla fotografia a cura di Vincenzo Marranghino che illumina con toni caldi e forti contrasti le strade della pittoresca ciudad, mentre riserva tinte più sbiadite e colori smorzati per le scenografie interne.

Un film che accende i riflettori su un quartiere dove le luci si preferisce tenerle spente, per nascondere nel buio tutti quei fallimenti e i vani tentativi di una vita migliore.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 3.5

3.5