Led Zeppelin – The Song Remains the Same: recensione del film-concerto

Il film, che nel 1976 raccontò i concerti tenutisi tre anni prima al Madison Square Garden, torna al cinema in versione restaurata il 25, 26 e 27 marzo

Ambizioso, anticonvenzionale, innovativo, rivoluzionario; per rinfrescare il nuovo bisogna tornare al “vecchio” e per rispondere al crescente moltiplicarsi di film-concerto meccanicamente canonizzati, bisogna tornare indietro di circa 50 anni, a Led Zeppelin – The Song Remains the Same, la pellicola che, nel 1976, ripercorse le tre serate tenutesi a luglio del ’73 al Madison Square Garden di New York, nel bel mezzo del tour atto a promuovere il quinto album in studio della band britannica, Houses of the Holy.
Al cinema il 25, 26 e 27 marzo in una veste del tutto rimasterizzata, il film diretto da Peter Clifton e Joe Massot, prodotto da Swan Song, ci porta all’interno di uno stadio trasudante energica emozione, giostrandoci tra la platea gremita di fan in visibilio, e il fragoroso palco su cui Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham raggiunsero la loro definitiva consacrazione, sublimata poi dal progetto cinematografico da loro stessi voluto, un’opera che alterna ampi stralci dei tre live a scene di finzione che, fin dalla prima sequenza, danno il senso della sua peculiarità.

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Led Zeppelin – The Song Remains the Same

Led Zeppelin cinematographe.it

La finzione presenta, la musica irrompe; dall’apertura in stile gangster movie all’assolo allucinatorio di Jimmy Page, passano scene addensate di suono e simbologia: Robert Plant, stretto nei suoi jeans, emette urla graffiate da un timbro inconfondibile, Page armato di Gibson a doppio manico, suona a mo’ di violino, John Bonham rimbomba le sue percussioni vibranti, tonanti ma, mentre il pubblico è preda di una convulsiva isteria da performance, Led Zeppelin – The Song Remains the Same sconvolge la sua veste con scene che traggono dall’immaginifico e integrano il racconto di tre incredibili serate di musica con frammenti puramente cinematografici, in cui l’assenza di dialogo lascia spazio allo svolgersi di situazioni surreali, quasi farsesche, in cui i quattro membri della band si travestono di una teatralità che solamente il palcoscenico aveva intuito, ma che ben si presta a questa particolare scelta.

Dal mito alla leggenda

La miticizzazione dei Led Zeppelin passa quindi da una mitologica riproposizione degli artisti in veste di personaggi e il dialogo non trova quasi mai spazio, laddove è sufficiente il suono avanguardistico della band, per dare forma vocalica al racconto di una leggenda. Le riprese dei concerti trasudano la pellicola, dettagliano alcuni momenti iconici e ci portano al fianco dei quattro performers, avvicinandoci alle loro esibizioni tanto da farne percepire l’assuefacente vigoria.
Lo spettatore ha così la possibilità di rivivere l’emblematico apogeo raggiunto dalla rock band, respirandone la sensazioni più carnali, abbandonandosi ad un’incontrollata esaltazione musicale, mentre la sospensione data da momenti artefatti tenta di contribuire nel comunicare la grandezza e la leggendarietà del gruppo britannico.

Led Zeppelin – The Song Remains the Same: valutazione e conclusione

The Song Remains the Same cinematographe.it

Il fatto che l’opera originale, girata durante i concerti del 1973, sia poi stata distribuita solamente tre anni più tardi, ci fa capire quanto la produzione di Led Zeppelin – The Song Remains the Same sia stata travagliata: prima Joe Massot, poi Peter Clifton, si sono avvicendati per la direzione di un’opera che doveva riuscire a configurarsi come il perfetto prolungamento mediale di un evento di musica senza precedenti, ma ciò ha reso la sua costruzione molto più complessa del previsto. Voluti entrambi dall’esigente manager della band, Peter Grant, i due autori si sono passati il lavoro, con Massot che si è occupato delle riprese in 35 mm del live e Clifton, chiamato in un secondo momento per colmare i vuoti lasciati dal predecessore, che decise di ricreare l’intero spettacolo agli Shepperton Studios di Surrey, in Inghilterra.

Ne risulta un rockumentary che, seppur vanti una propria avanguardia contenutistica nel parallelismo tra i momenti di finzione e quelli dal vivo, ornato da un’ipnotica resa visiva e dall’abbandono quasi psicotropo che coinvolge la sala, oltre che la platea, perde tanto del suo potenziale a causa di un montaggio confusionario, evidentemente dovuto all’avvicendarsi direttivo e all’accostamento di momenti tratti da diverse serate, alcune fittizie, e di una resa finale che a suo tempo deluse il pubblico, per non essere stata in grado di replicare appieno la monumentalità di quell’evento.
La ricchezza di quest’opera attraversa, pertanto, ognuna delle fasi che l’hanno composta, dalla sua ideazione sino alla distribuzione e alla ricezione che ne hanno seguito, ed è pertanto un privilegio poterne constatare la portata a 50 anni di distanza, grazie alla pratica del restauro che, in maniera sempre più massiccia, fa riemergere pietre del passato capaci di brillare ancora oggi.

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Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.5