Le città di pianura: recensione del film di Francesco Sossai
Le città di pianura, regia di Francesco Sossai, è un on the road malinconico, rock e cinefilo, ambientato in Veneto, all'inseguimento di un ultimo bicchiere che non arriverà mai. In sala il 2 ottobre 2025.
Il migliore film italiano del 2025, o uno dei migliori, volendo tirare il freno a mano dell’entusiasmo critico (non c’è motivo, in realtà), si chiama Le città di pianura, è diretto da Francesco Sossai – lo ha anche scritto, insieme ad Adriano Candiago – e arriva nelle sale italiane il 2 ottobre 2025 per Lucky Red. Non arriva impreparato.
L’antipasto è stato il passaggio a Cannes 78, sezione Un Certain Regard; una girandola di acclamazioni critiche in attesa del responso del pubblico, che si immagina forte, incoraggiante, degno della poesia alcolica, sgangherata e ribelle del film. Che è rock, certo, ma nel senso più puro del termine: uno stato mentale, più che un genere armato di codici, convenzioni, pretese. Trasuda nostalgia (umana, storica, cinefila) per un mondo, un cinema, una terra che non ci sono più. A dispetto del suo ostinato guardare indietro, tuttavia, è una delle cose più fresche – e nuove, e giovani – che si possono incontrare in questo tempi, cinematograficamente e non, scialbi e conformisti. Sergio Romano, Pierpaolo Capovilla, Filippo Scotti, Andrea Pennacchi, Roberto Citran completano il cast.
Le città di pianura: una notte che durerà fino all’ultimo bicchiere

La notte di Carlobianchi (Sergio Romano), tutto attaccato, e di Doriano (Pierpaolo Capovilla) non finisce mai. Cinquantenni o giù di lì, vivono da qualche parte nell’entroterra veneto, sulle montagne, e ogni notte scendono a coprire la distanza che separa la montagna da Venezia, per esplorare quello che c’è nel mezzo, la sterminata pianura, e fermarsi, così dicono, solo quando avranno bevuto l’ultimo bicchiere. E l’ultimo bicchiere non arriva mai, e la notte di Carlobianchi e Doriano non finisce mai. A metà di una sera di pellegrinaggi alcolici senza fine in vista, entra in scena Giulio (Filippo Scotti).
Non basta, bisogna aggiungere qualcosa. La poesia del film non è solo esistenziale, intima, arroccata sulla psicologia dei due, anzi tre, marginali, eroici protagonisti. Francesco Sossai costruisce con Le città di pianura un malinconico (ma non ripiegato su se stesso), nostalgico (ma non morboso), cinefilo (ma non snob) affresco, intimo e socialmente consapevole. Il suo Veneto è una periferia dell’anima, ma non solo. Le ville in disuso sul punto di essere spazzate via per far spazio all’autostrada (Lisbona-Treviso-Budapest); il paesaggio post-industriale diroccato; le apparizioni estemporanee e ipocrite dei padroni del vapore, che scendono in elicottero per consegnare l’orologetto celebrativo e poi se ne vanno – da rimarcare il cameo di Roberto Citran, giustamente avvicinato ad atmosfere fantozziane – per lasciare l’operaio neo pensionato a un destino di nulla. Tutto concorre ad esprimere un triplice disagio: sociale, economico, umano. L’incespicare alcolico del trio ne è lo specchio fedele.
Carlobianchi e Doriano hanno perso tutto dopo la crisi del 2008. Rimpiangono gli anni ’90 e hanno trovato il segreto della vita, ma se lo ricordano solo da ubriachi. Hanno un amico, Genio (Andrea Pennacchi), che è fuggito in Argentina dopo aver fatto i soldi lucrando su grosse partite di occhiali da sole. Genio è espatriato in attesa della prescrizione ma ora è finita, è salvo. Dovrebbero andare a prenderlo e, magari, recuperare con lui il tesoro sepolto. Dovrebbero, ma poi incontrano Giulio, studente di architettura ossessionato dal lavoro di Carlo Scarpa – gli farà visitare la celebre Tomba Brion – innamorato di una compagna di università senza il coraggio di confessarsi. Timido, colto, sobrio, a suo modo figlio della modernità, Giulio è l’antitesi esistenziale all’irregolarità di Carlobianchi e Doriano. È per questo che legano. Si aiutano, si capiscono, si arricchiscono. Senza comodità di lieto fine in vista, tra un bicchiere e l’altro, improvvisando. Ma con criterio.
Generazioni allo specchio e il senso della vita in un bicchiere

Generazioni allo specchio, perché ce n’è di tempo, tra la mezza età di Carlobianchi e Doriano e la freschezza titubante di Giulio. Generazioni malinconiche, ma senza piagnistei, con dignità e autoironia. Francesco Sossai li ama tutti allo stesso modo, anche se Le città di pianura è il film di, dalla parte di, dal punto di vista di: Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla. Trionfano, l’estro teatrale, esuberante e venato di follia di Sergio Romano e l’attitudine irregolare di Pierpaolo Capovilla, altrove musicista (Il Teatro degli Orrori). Non funzionerebbero, però, senza il lavoro in sottrazione, di poetica fragilità, del molto bravo Filippo Scotti.
Carlobianchi e Doriano attingono alla profondità di Giulio e imparano nuove prospettive sulla vita – il viaggio alla Tomba Brion gli fa guardare il mondo, letteralmente, in modo diverso – per esorcizzare il supremo spauracchio. Anche Giulio si lascia andare e recupera dai compagni di bevute il passo di una vita irregolare, marginale ma non sconfitta. Il senso della vita che sfugge ai protagonisti è davanti ai loro occhi. È il pellegrinaggio alcolico, la notte senza fine dietro l’ultimo bicchiere, che non arriverà mai se possono scegliere: è una filosofia di vita, una scelta, un viaggio, una missione. Accanto c’è il Veneto, la terra che ha dimenticato se stessa. Nell’imperfezione e nella malinconia, nel bicchiere dopo l’altro, i due eroi e l’apprendista hanno trovato il modo di vivere le loro vite. Il mondo intorno, no.
È bello che la regia di Francesco Sossai e la scrittura in coppia con Adriano Candiago siano riuscite a mantenere Le città di pianura così coerente, dentro e fuori. È una ballata rock, nello spirito e in superficie – grazie alla bella soundtrack firmata Krano – che racconta vittoria e fallimento come la stessa faccia della stessa medaglia, tratteggiata dalla fotografia carnale e pastosa di Massimiliano Kuveiller. È la promessa di un cinema d’autore che non si vergogna di esserlo, che crea qualcosa di nuovo, di bello, nel solco tracciato dai maestri di ieri (e di oggi). Viene facile parlare di Carlo Mazzacurati – perché questa provincia è la sua provincia, e questi ragazzi i suoi ragazzi – del culto alcolico dell’antieroe di Kaurismäki, di incedere vitellonesco e del Sorpasso, dell’odissea dolceamara di un’Italia che va di fretta, e non si sa dove. Le città di pianura valorizza la sua eredità cinefila per costruire un autonomo e poetico discorso. La sua ribellione, la sua notte senza fine, il suo doppio racconto, di un ambiente e delle persone che lo abitano, trasfigura la provincia e ne fa sfondo e verità universale. Non si può onestamente chiedere, al film, più di quanto offre.
Le città di pianura: valutazione e conclusione
Le città di pianura è un on the road alcolico, poeticamente nostalgico ma proiettato nel futuro, autoriale nelle premesse ma non necessariamente nella resa, perché è umano, accessibile, come dovrebbe essere il cinema d’autore non innamorato di se stesso, al servizio del pubblico (non capita spesso). Estemporaneo e studiato, il film si riflette nel viaggio apparentemente senza meta dei protagonisti – il senso del viaggio è appunto l’assenza di meta – con un’attenzione ai dettagli commovente. Questa ricchezza mai ostentata – la forma, l’immagine, il suono, la recitazione, il quadro d’ambiente – è la forza più sincera del film. Le città di pianura è una storia contromano, nello spirito e in superficie, rispetto al cinema italiano di oggi, alle sue tendenze e al modo di costruirsi. Ma la sua ribellione è gentile e non armata, malinconica ma non morbosa, innamorata dei personaggi ma non cieca di fronte ai loro difetti, memore del passato ma capace di parlare da sé. Per Francesco Sossai è una tappa importante all’interno di un percorso autoriale che va tenuto d’occhio. Per il nostro cinema, una bella lezione, da studiare con zelo. Per il pubblico, un’occasione che sarebbe delittuoso perdere.