Late Fame: recensione del film di Kent Jones con Willem Dafoe, da Venezia 82
Come la Vienna dei poeti maledetti nell'universo ambiguo di Traumnovelle di Schnitzler, la New York di Late Fame diventa la metafora di un'esistenza che si sbriciola sotto il peso della propria memoria, ma che si rifiuta di morire.
Presentato per la sezione Orizzonti alla Mostra del cinema del Festival di Venezia, Late Fame di Kent Jones è un film sulla complessità malinconica del superfluo; è un’incursione nell’oscurità dell’anima, un abisso visivo che si materializza come il riflesso di un’epoca confusa, che si aggira senza mai effettivamente trovare un luogo su cui adagiarsi. Kent Jones prima e Late Fame dopo si infiltrano nei recessi più nascosti della condizione umana, rivelando una trama narrativa atroce quanto il silenzio che la attraversa, una tensione palpabile che sembra trattenere il respiro restando a bocca aperta. La meditazione sul tempo, sulla memoria e sul disfacimento interiore non si traducono mai in un’affermazione esplicita, ma restano sulle metafore, quasi eteree, tra le ombre di una città che non parla, non sembra respirare, soffocata dall’aria stantia di una New York impolverata e ritratta nell’esistenziale delle incapacità di nessuno.
Late fame si manifesta tra appartamenti senza collocazioni culturali
New York “la vecchia eroinomane” si presenta come un’ombra indefinita, immutata, sopra un decadimento culturale che giace silente nel cuore di una post-modernità incapace di dominare il rischio. Ogni angolo della città è marchiato dalla solitudine e dalla disillusione, eppure continua a pulsare nella distanza, nell’assenza di cui si inebriano i suoi abitanti. Le strade, i palazzi, gli appartamenti non sono più meri contenitori di corpi, ma estensioni fisiche di un’umanità che ha smesso di cercare il proprio futuro. Ogni appartamento è un microcosmo di smarrimento, un labirinto di stanze che sembrano respirare la soffocante ristrettezza di un tempo senza collocazione. Come la Vienna dei poeti maledetti nell’universo ambiguo di Traumnovelle di Schnitzler, la New York di Late Fame diventa la metafora di un’esistenza che si sbriciola sotto il peso della propria memoria, ma che si rifiuta di morire.
In questo panorama di disperazione, Late Fame si scrive negli appartamenti; non sono semplici luoghi fisici, ma veri e propri protagonisti della narrazione; non sono solo stanze, ma gusci vuoti. Ed Saxberger, poeta dimenticato, non è un protagonista ma scenografia, una prigione temporale che non conosce riscatto, un’interminabile stasi dove ogni dettaglio, ogni macchia sulla parete, racconta il decadimento di un uomo e di un’epoca intera, la sua. Sintassi estetiche di determinate cinematografie indipendenti; Marathon – Enigma a Manhattan di Amir Naderi, per esempio, condivide la stessa New York come sfondo ma se Jones ci presenta una metropoli che sussurra i suoi fantasmi attraverso una solitudine disillusa e un tempo che sfugge, Naderi la trasforma in un campo di battaglia, dove il corpo e la mente sono spinti a resistere attraverso il movimento incessante. Se in Late Fame la città è il riflesso di un passato che non può essere recuperato, in Marathon diventa una forza viva che sfida il protagonista a non esser un parassita della fretta. Entrambi i film, pur nella loro distanza stilistica, indagano la lotta umana, ma mentre Jones ci costringe a contemplare il vuoto, Naderi ci spinge a correre contro di esso, dipingendo New York come un’entità che, pur diversa nei suoi volti, continua a mettere alla prova chiunque ci viva: una piccola intrusione nella sperimentazione locativa che il carattere cinematografico riesce a riflettere.
Narrativa e narrazione
Late Fame non è, tuttavia, un film che si limita a raccontare solitudine e decadenza. È un’opera che esplora il vuoto che si cela dietro il ricordo, un vuoto che si manifesta in un gioco costante di immagini che non si risolvono mai, che si allungano, si dissolvono e si intersecano senza trovare un punto d’incontro. Come nelle tragedie psicologiche di Schnitzler, dove il desiderio, il rimpianto e la solitudine si intrecciano in un dramma che non prevede redenzione, il film di Jones ci offre la visione di un’esistenza sospesa, intrappolata in un passato che non sa come sfuggire eppure non può sparire altrove. La figura di Gloria, che emerge come un’apparizione enigmatica, diventa la rifrazione di un desiderio incerto, un desiderio che diventa sempre più inesistente quasi fatale. La sua bellezza non è mai salvifica, ma inquietante e misteriosa, come un simbolo di ciò che non può essere afferrato, ma si lascia soltanto intravedere. Così, come nei drammi schnitzleriani, i personaggi si aggirano alla ricerca di un amore che non può essere trovato, i protagonisti di Late Fame sono alla disperata ricerca di una salvezza che, come una chimera, rimarrà loro sempre irraggiungibile.
La regia di Kent Jones si muove come una danza spettrale, fluida e senza respiro, spingendo lo spettatore in un viaggio nell’oscurità. La macchina da presa non è mai ferma, ma si spinge in avanti, costantemente alla ricerca di una consapevolezza che resta sfuggente, che si nasconde dietro ogni inquadratura, dietro ogni angolo buio della città. Ogni movimento diventa un colpo di vento, lasciando dietro di sé una scia di polvere, una traccia di un mondo che si nasconde. Questo approccio registico diventa un’eco delle esplorazioni psicologiche di Schnitzler, dove ogni gesto, ogni parola, si trasforma in un frammento di un’anima che cerca di farsi comprendere senza mai riuscirci.
Saxberger (Willem Dafoe) si trova di fronte a un desiderio che non può soddisfare, a una realtà che non può più cambiare. Eppure, in questa consapevolezza, si cela una bellezza che solo chi ha il coraggio di guardare oltre la superficie può percepire, un vuoto che non può essere colmato ma che si lascia guardare, come la pioggia che scivola sulla pelle di un suicida, senza mai trovare il suo scopo.