La viajante: recensione del film di Miguel Mejias

Road movie incentrato sul disagio esistenziale e sull'incomunicabilità del sentire umano, La viajante racconta il viaggio della protagonista Ángela alla ricerca della sua identità e conduce lo spettatore alla riscoperta di preziose forme di solitudine.

Presentato in occasione dello ShorTS International Film Festival 2020, in concorso per la sezione Nuove Impronte dedicata ai migliori lungometraggi del cinema emergente, La viajante è il primo lungometraggio di Miguel Mejias. La pellicola narra le vicende di Ángela, giovane donna alle prese con l’accettazione della morte della madre (interpretata da Franciska Ródenas). Attraversata da una profonda crisi esistenziale, la trentenne interpretata da Ángela Boix decide di mettersi in viaggio per seppellire le ceneri della madre nel deserto dove, con meticolosa e dolorosa perizia, si soffermerà a filmare gli insetti la vecchia cinepresa appartenuta alla mamma.

Il regista ci presenta la protagonista attraverso un episodio di inquietante bellezza. Una gigantesca farfalla vola nella stanza della giovane. Simbolo di libertà e fuga, ma anche chiaro richiamo alla morte e alla dimensione parallela dell’aldilà, il lepidottero sarà lo specchio dentro il quale la giovane vedrà la propria immagine, decidendo di partire alla volta di un viaggio alla scoperta di sé.

Ed eccoci giunti alla prima, reale protagonista del film: la vecchia Super 8 millimetri giapponese Cosina con la quale la giovane documenta il suo viaggio, occhio artificiale prestato allo sguardo dello spettatore per affacciarsi sul mondo complesso e dolente della protagonista.

E sarà proprio ripercorrendo i ricordi d’infanzia, filmando gli insetti che da bambina amava scovare e catalogare in compagnia della entomologa, che Ángela entrerò in contatto con nuovi, imprevisti impulsi, figli della solitudine e dell’inarrestabile malessere che l’accompagna. Prezioso appiglio per la giovane donna, spettatrice più che protagonista della sua stessa esistenza, è il passato, sapientemente rappresentato da vecchi filmati in Super 8 girati dalla madre di Ángela.

Ed ecco che in un’alternanza di eventi e ricordi, la ragazza si ritrova a dare un passaggio a uno sconosciuto, interpretato dal galiziano Miquel Insua. Il cinquantenne Miquel, ex insegnante di letteratura scorbutico e impenetrabile, accompagnerà la donna nel suo viaggio e, anch’egli pieno di mistero e dolore, le donerà una raccolta di poesie di Paul Eluard. Accomunati da una forte pulsione di morte, i due saranno spettatori inermi di un suicidio mentre la necessità di elaborazione del lutto materno porterà la donna a filmare con spaventoso distacco, il cadavere di un uomo impiccato nel bosco.

La viajante: un road movie sulla fragilità umana

La viajante cinematographe.it

Suddiviso in tre capitoli, ciascuno dei quali coronato da un titolo, il film è stato girato in tre differenti isole delle Canarie. Regia e montaggio concedono ampio spazio al secondo indiscusso protagonista del lungometraggio: il deserto. Teatro dell’intera vicenda, questo contesto arido e solo apparentemente privo di vita rappresenta paradossalmente un luogo di incontro che sa farsi personaggio offrendo al pubblico, attraverso gli occhi della macchina da presa, una panoramica chiara sull’ansia esistenziale, sulla morte e sul mistero della vita.

Caratterizzato da un linguaggio cinematografico essenziale e molto riflessivo, La viajante presenta chiari rimandi al cinema di Bertolucci e Antonioni. Prodotto da Digital 104 e Volcano Films, il lungometraggio vanta l’ottima fotografia di Pablo G. Gallego e una sceneggiatura azzeccatissima, scritta a quattro mani da Mejias e Amanda Lobo.

Padre di alcuni cortometraggi, interpretati quasi sempre da Ángela Boix, con La viajante Miguel Mejias è riuscito a dar vita a un film intimista ricco di spunti. Attraverso dialoghi essenziali, panoramiche lente e riprese con camera fissa, il giovane regista ha catturato lo spettatore quasi imprigionandolo e costringendolo a confrontarsi col senso di impotenza che si sperimenta quando ci si affaccia a una claustrofobica crisi esistenziale. La pellicola presentata alla manifestazione cinematografica triestina riesce quindi efficacemente nell’intento di narrare le vicende di chi ha perso ogni appiglio, ogni tipo di legame con la vita. Il lungometraggio affronta risoluto il delicato tema della solitudine interiore ricordandoci che il dolore non ha casa né luoghi d’appartenenza e che l’unico modo che abbiamo per affrontarlo e superarlo è muoverci insieme a lui, inarrestabilmente.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 5
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4.2