La ragazza con l’orecchino di perla: recensione del film su Johannes Vermeer

La ragazza con l’orecchino di perla, il film del regista britannico Peter Webber, tratto dall’omonimo romanzo di Tracy Chevalier, disarma e istruisce lo spettatore col furor dell’arte presa in prestito da Jan Vermeer. I colori sono bagnati di luce, compatti, appiccicati allo schermo come sulla tela e le pennellate infinitesimali e costanti trasudano lente come se fluissero da un contagocce; attraversano le espressioni fugaci e segnate da un secolo ormai perduto e da una civiltà lontana.

La pellicola del 2003, sceneggiata da Olivia Hetreed, erige a stento i contorni di una storia fatta di rapporti familiari e amori extraconiugali, oltrepassando le cesellate strade affollate di nature (umane) morte e i chiaroscuri che delimitano i contorni delle cose.

Il punto primo e ultimo di ogni attimo è quel quadro, così semplice eppure così osceno; così povero e ossessivamente denudante da strappare il fiato.

Ragazza col turbante, un olio su tela dipinto tra il 1665 e il 1666 e custodito nella Mauritshuis (L’Aia, Paesi Bassi), è senza ombra di dubbio l’opera più rappresentativa del pittore e tutta la sceneggiatura si prostra all’architettura massiccia di questa meraviglia; tutto il film si concretizza in una restituzione perenne dello sguardo, un invito a scrutarsi dentro.

la ragazza con l'orecchino di perla

Servendosi di attori del calibro di Colin Firth e Scarlett Johansson, Webber cerca di costruire l’ambiente dell’Olanda della metà del XVII secolo e la vita della “Sfinge di Delft”, basandosi su quel poco che si sa dell’autore e catapultandoci direttamente a metà della sua vita; tralasciando il come, dove e perché ha iniziato la sua carriera, la tecnica usata, il contesto storico, il rapporto con la religione.

Chi vede La ragazza con l’orecchino di perla digiuno d’arte fiamminga si ritrova a scrutare la vita del pittore come da dietro lo stipite di una porta e con lo sguardo tenero, rapito e profano di un’umile e bellissima ragazza, Griet (Johansson), mandata a prestare servizio presso la casa del pittore. La sua integrazione nel nucleo familiare è ricca di attriti e sotterfugi, costellata però da piccole scintille di curiosità, impelagati al di sotto dei colori e delle pennellate meditate; crocifisse nella trappola magnetica che solo l’arte vera è in grado di elaborare.

La ragazza con l’orecchino di perla: Jan Vermeer su pellicola

la ragazza con l'orecchino di perla

Il regista ci ammalia con le ambientazioni di interni e paesaggi, caratterizzati da colori pastello, puntinati e fitti sullo schermo, attraversati dalla luce, non invasi dal contorno ‘a matita’. La macchina da presa si sofferma sui dettagli: il luccichio del canale all’imbrunire, la polvere depositata sui mobili; gli spazi angusti in cui dorme Griet, i colori calpestati dagli utensili.

Chi non conosce il genio di Vermeer potrebbe confondere certe inquadrature con quelle di alcuni film d’animazione degli anni ’90 ma, visto che l’oblio sull’autore si è fortunatamente diradato negli ultimi anni, sembra lapalissiana l’assonanza con gran parte delle 37 opere rimaste.

Si scorge, per esempio, la Veduta di Delft (1660-61), traslitterata fedelmente nella danza delle barche e nell’atmosfera d’immobilità dell’ambiente circostante e ancora i celebri dipinti de La Lattaia, della Donna con brocca d’acqua o della Donna con collana di perle, che il compratore Van Ruijven (Tom Wilkinson) dice essere ricoperta di piscio distillato, a causa del colore usato per la composizione, ma non per questo non meritevole di rappresentare la moglie.

Tutte le opere succitate fanno riferimento al medesimo periodo in cui fu confezionato La ragazza col turbante, il che ci cala ulteriormente nel periodo preso in considerazione dal regista.

Lo spettatore ha spesso l’impressione di trovarsi immerso in quelle opere, di prenderne magicamente parte, eppure è scosso dall’affanno di non riuscire ad andare oltre ciò che rimane essiccato sulla tela. Il Johannes Vermeer che si rintraccia nell’interpretazione di Colin Firth è un uomo che non sa raccontarsi, schivo e misterioso – come d’altro canto lo è gran parte della sua vita -, un pittore dotato di una spiccata memoria fotografica e della sapienza di ricalcare nelle sue opere attimi di vita quotidiana.

La lezione che si apprende sulla sua poetica artistica è puramente visiva ed estemporanea.

la ragazza con l'orecchino di perla

Apprendiamo l’uso della camera oscura – che secondo la tesi stipulata da David Hockney e  Charles M. Falco fu usata da molti contemporanei di Veermer – e il suo amore per il blu oltremare, ricavato dal lapislazzuli, tramite alcune scene come quella in cui è intento a preparare i colori insieme a Griet o a mostrarle il funzionamento del suddetto marchingegno.

La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber mostra una storia fatta di immagini che si susseguono, sostituendosi all’autentica narrazione e svuotando di significato le parole.

La maggior parte dei dialoghi sono scanditi da affanni, respiri profondi, sconquassati dalla paura o dallo stupore nel caso della Johansson, oppure sono comandi, affermazioni, riflessioni da captare nello sguardo – nel caso di Firth – e ancora grida esasperanti e conversazioni irruente, come quelle cui è solito il personaggio di Essie Davis (che interpreta la moglie Catharina).

Dal punto di vista puramente narrativo si scorge ciò che il pittore di fatto fu: un talento oppresso da una consorte del tutto priva di senso artistico, spalleggiato da una suocera (Judy Parfitt interpreta Maria Thins) in grado di comprendere il suo dono; soffocato da una prole consistente (in tutto la coppia ebbe 13 figli) e dai debiti e che ebbe fortuna – come molti – sono dopo la morte.

In questo racconto è intessuta in parallelo l’esistenza della Ragazza che il pittore non potette fare a meno di scrutare, i suoi usi e costumi che al giorno d’oggi potrebbero sembrare assurdi e incomprensibili, quella ragazza che si concede con riservatezza al pennello inumidito di colori preziosi, rimanendo impressa sullo schermo e ancor prima sulla tela col suo etereo sguardo.

la ragazza con l'orecchino di perla

La ragazza con l’orecchino di perla: pregi e difetti del film di Peter Webber

Se la sceneggiatura de La ragazza con l’orecchino di perla pecca in qualcosa è certo quello di non addentrarsi ulteriormente nelle parabole esistenziali dell’autore e di confondere la fotografia filmica con le opere autentiche, annullando nello spettatore il senso di meraviglia.

Sublimi i costumi (non a caso il film ha ricevuto tre candidature all’Oscar, oltre che per la migliore scenografia, anche per la fotografia e i costumi), fedeli al tempo e alle opere.

Ci sono anche dei pregi, però, nel film, come quello di aver portato in auge il lavoro di un artista troppo a lungo dimenticato, di aver saputo dosare la curiosità rendendola virale e di aver lasciato scorgere solo nell’ultimo fotogramma l’opera protagonista. Essa rimbomba nel tempo: più di ogni immagine mobile, rimane sullo sfondo nero e ci guarda.

La misteriosa ragazza dall’orecchino di perla ha la testa girata a tre quarti, un fascio di luce la colpisce da sinistra, rendendo quasi trasparente quella parte del viso, mentre l’altra è assorta nell’oscurità; se non fosse per quell’orecchino di perla che restituisce luce anche all’altra parte del volto, catturando al contempo l’attenzione dello spettatore.

Le sue labbra carnose e socchiuse e le pupille dilatate che brillano dentro gli occhi grandi; il naso piccolo e sottile e quell’espressione di languida purezza. Dov’è la ragazza, da quale vicolo recondito del cuore è fuoriuscita? In quale altro mondo adesso ella vive?

Ciò che resta del film è l’illusione di un sogno, è il turbamento di quella donna così bella, esotica. È il grido spento dell’arte che attraversa i secoli e le forme, spingendoci inevitabilmente verso la curiosità.

Peter Webber ci chiama, noi ci voltiamo: è poesia!

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 4.5

3.3