La casa delle bambole – Ghostland: recensione dell’horror di Pascal Laugier

La casa delle bambole di Pascal Laugier è un pugno allo stomaco, che va al di là del suo essere un film dell'orrore. Qui il cliché trito e ritrito della bambola horror acquisisce un senso nuovo nel suo essere simbolo e amplificazione della psiche dei personaggi.

Un nuovo capitolo del cinema horror va ad aggiungersi a un trend sempre più definito e interessante: arriva al cinema dal 6 dicembre 2018 La casa delle bambole – Ghostland diretto da Pascal Laugier e distribuito in Italia da Midnight Factory.

Per quanto la sua filmografia non sia sterminata (conta appena quattro lungometraggi), Laugier è un nome affermato del cinema di genere europeo, una garanzia o – perlomeno – una promessa. Dopo il suo Martyrs (2008), di cui Hollywood ha proposto un remake nel 2015, il regista francese torna in sala con questo suo nuovo incubo, una conferma inequivocabile del suo talento nel trovare la storia giusta e il miglior modo di raccontarla.

La casa delle bambole – Ghostland, il nuovo incubo di Pascal Laugier

Come spesso accade nei film horror, la vicenda ruota attorno a una casa dall’arredamento inquietante e dalla posizione isolata. In questo caso vediamo la mamma-single Pauline (la popolare cantautrice francese Mylène Farmer) trasferirsi nell’antica abitazione della zia morta, caratterizzata dalla bizzarra abitudine di collezionare bambole di ogni tipo. Nella casa-museo degli orrori, la donna porta con sé le due figlie Beth (Emilia Jones) e Vera (Taylor Hickson), due adolescenti molto diverse fra loro. Se Beth è una sognatrice, una scrittrice in erba di narrativa horror, Vera è più cinica e polemica e tutto, dall’apparenza al modo di esprimersi, le porta a un confronto conflittuale. Questa quotidianità descritta in maniera vivida e rapida costruisce il quadro di partenza: non si tratta di un idillio, non parliamo di una famigliola perfetta (il padre è raramente citato, e non con termini particolarmente lusinghieri), ma di un gruppo di donne teso e reale. In questa casa, in questa famiglia, fa irruzione all’improvviso una coppia di maniaci (Rob Archer e Kevin Power), che le ha scelte fra tante per sfogare i propri istinti più bassi e violenti.

La casa delle bambole: Laugier, il re del plot twist

la casa delle bambole cinematographe

A partire da questo semplice plot, Laugier è in grado di costruire una trama appassionante e mai prevedibile, in grado di tenere alta la tensione per tutta la durata del film. Gli espedienti narrativi di cui si serve per movimentare l’azione ed esasperare – per quanto possibile – una situazione già al limite, sono a loro volta semplici ma efficaci. Il regista, inoltre, è in grado di rendere la psicologia di un’adolescente in maniera strabiliante, andando a toccare tematiche profonde e delicatissime.

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Al di là del sorprendente stratagemma narrativo di cui Laugier si serve per scombinare un plot altrimenti lineare (ma non per questo meno sconvolgente), La casa delle bambole ha una simbologia non troppo velata in linea coi tempi e coi temi più caldi del dibattito pubblico. Le bambole che invadono la scena altro non sono che le protagoniste nella loro condizione di donne-oggetto, alla mercé dei loro aguzzini. Laugier va dritto al punto e le sue scelte, così crude, così visivamente esplicite, potrebbero non piacere a molti; il film è difficilmente digeribile proprio in virtù della violenza raccontata, mostrata e sottintesa che il regista dissemina lungo tutta la storia. In più riprese il pubblico può cogliere l’assoluta disperazione delle protagoniste e il trauma che queste due giovani donne si trovano a gestire durante tutta la loro prigionia (e oltre). Allo stesso tempo l’accanimento dei due maniaci è gratuito, un esempio di male archetipico come quello delle streghe e degli orchi richiamati dal loro aspetto grottesco. L’insensatezza della tortura, l’assoluta casualità che lega le vittime ai loro carnefici rende l’incubo di Laugier un pericolo imminente, credibile, da cui ogni spettatrice si guarderà dopo la visione del film.

La casa delle bambole – Ghostland conferma il talento di Pascal Laugier

La casa delle bambole – Ghostland Cinematographe.it

 

La casa delle bambole – Ghostland riesce a riscrivere un tema classico, al limite del banale, del genere horror e sottolinea il talento estetico, narrativo e registico del suo autore. Già convinti dal suo Martyrs, troviamo in questa nuova proposta di Laugier un uso sapiente e intelligente del plot twist, oltre che la sua consolidata propensione all’uso di immagini e metafore. Le protagoniste, così come i loro avversari e le atmosfere in cui sono immersi, funzionano perfettamente e persino il cliché trito e ritrito della bambola horror acquisisce un senso nuovo nel suo essere simbolo e amplificazione della psiche dei personaggi. I corpi vuoti, messi su uno scaffale in attesa di essere usati sono il vero spauracchio femminile della società contemporanea che vive nel terrore di tornare in condizione di sudditanza e inferiorità. La sessualità forzata e violenta, la perdita della propria facoltà di scelta sono temi imprescindibili e Laugier contribuisce a renderli resistenti al passaggio delle tendenze politiche e dei riflettori mediatici.

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Un altro tema su cui vale la pena riflettere e su cui Laugier dà il suo forte contributo è il potere salvifico dell’immaginazione e della creazione. La potenza di una mente sofferente è in grado di creare mondi, futuri alternativi e strategie di fuga. Tanto più è forte questa fantasia, tanto più definita e credibile sarà la nostra idea di felicità, anche in un contesto che di felice non ha proprio nulla. Che sia questo il cinema? Che sia questo il senso di creare storie? Laugier ancora una volta porta l’horror verso vette di riflessione a cui nemmeno il cinema drammatico spesso si sogna di arrivare e lo fa attraverso personaggi e situazioni indelebili.

In un mondo – quello dei media – in cui si può mostrare una carneficina, un essere umano fatto a pezzi, ma guai a toccare i minori, guai a mostrare lo stupro, Laugier punta il dito contro il perbenismo (malato) e l’ipocrisia del cinema di genere e urla in faccia allo spettatore la vera paura, quella che persisterà per tutta la vita nella psiche compromessa delle sue protagoniste. Per stomaci forti.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.4