La Belva: recensione del film Netflix con Fabrizio Gifuni

Serrato e ottimamente montato, La Belva elabora un soggetto lineare per ricavarci un percorso sofferto di un protagonista allo sbando, pronto a tutto per salvare sua figlia.

La Belva è un altro tentativo riuscito di esplorare territori diversi, non ancora riprodotti con mezzi cinematografici aggiornati. In questo nuovo film Netflix, prodotto dalla Groenlandia Group di Matteo Rovere e Sydney Sibilla, si inquadra la condizione al limite di un uomo segnato da esperienze devastanti. Un veterano delle forze speciali, Leonida Riva (Fabrizio Gifuni), deve convivere con drammi e traumi ricorrenti, legati alle missioni compiute in Afghanistan con membri di una squadra tattica barbaramente uccisi. Il suo carattere è instabile, condizionato da psicofarmaci e tranquillanti, e Leonida non ha intenzione di costruire o rinnovare legami con una famiglia che fa fatica ad integrarlo. Una sera, sua figlia Teresa (Giada Gagliardi) viene rapita in circostanze misteriose. Una chiamata alle armi, unito ad un senso di responsabilità ritrovato, spinge Leonida a misurarsi contro un gruppo di trafficanti di giovani donne, mettendo a rischio la sua stessa vita. Disponibile sulla piattaforma da venerdì 27 Novembre.

La Belva: un montaggio in linea con il profilo caratteriale di un soldato sconfitto

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La caratteristica più rilevante de La Belva, risiede in una serie di scelte di montaggio indovinate; ogni svolta e spunto per muovere l’azione è intervallato da flashback agghiaccianti, che ritraggono una missione critica dalle conseguenze fatali. Il ruolo di capitano viene messo a repentaglio da un nemico che non si riesce a sconfiggere, e che può addentrarsi facilmente nella mente di Leonida. L’adrenalina che ancora circola in corpo e il timore di non riuscire ad integrarsi in un ambiente civile, portano l’interprete Fabrizio Gifuni a confrontarsi con un’umanità rivisitata. La recitazione è sofferta, misurata, perfezionata in via di sviluppo da una città fantasma.

Roma è un unico sentiero lastricato di sangue, un percorso guidato verso l’autodistruzione. Il soldato scelto si trasforma in un dispensatore di morte, invischiato in un crescendo di scene d’azione che non sfociano in effetti spettacolari gratuiti. Ci si focalizza su un circuito con tappe specifiche, che conducono verso il ricongiungimento con una figlia trascurata; l’obiettivo è ben chiaro ai nostri occhi, ma il regista Ludovico Di Martino crea, attorno allo svolgimento lineare, una finestra che si affaccia verso uno spirito investito dal terrore. Si tratta del terrore nel perdere contatto col terreno sotto i piedi, il terrore di spingersi oltre la scia di violenza incontrando morte certa, il terrore di ferirsi ulteriormente e non poter riabbracciare coloro che lo hanno sempre accolto e sostenuto.

Solo contro tutti, anche sul fronte recitativo

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Ne La Belva Fabrizio Gifuni comunica con il corpo, più che con lo sguardo; il risultato è piuttosto credibile, per alimentare il motore narrativo e infarcirlo di sezioni fortemente drammatiche. Nel farsi terra bruciata intorno, l’interprete funziona molto bene quando viene messo all’angolo, costretto a sostenere combattimenti all’ultimo sangue e coinvolto in inseguimenti- in auto e a piedi – al cardiopalma. Le sequenze più concitate vengono impreziosite dalla sua imponente presenza scenica, capace di oscurare qualsiasi altro ruolo di supporto. Lino Musella, che veste i panni dell’ispettore Antonio Simonetti, incaricato di seguire il caso di sparizione di Teresa, non offre un’interpretazione segnata dalla scia di morte sprigionata da Leonida.

La trama de La Belva è incentrata unicamente su una crociata personale manipolata dal tempo, che scorre senza fare sconti a nessuno. Ogni minuto è prezioso e deve essere sfruttato per proseguire in una sola direzione, con ferite crescenti e ricordi che si fanno sempre più pressanti. La prestanza fisica di Gifuni è accentuata da scelte cromatiche – a cura di Luca Esposito – sempre interessanti, che donano maggior incisività ad un carattere tenace ma ingarbugliato nelle sue stesse criticità. Possiamo definirlo dunque un one man show, una performance da solista capace di attirare l’attenzione della cinepresa su di sé. L’ambientazione in notturna svolge una parte di fondamentale importanza, garantendo un ritmo moderato e descrivendo una lotta spietata fra traumi indelebili e minacce incombenti che non avranno pietà del protagonista.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

3

Tags: Netflix