Taormina Film Fest 2020 – Jiyan: recensione del film di Süheyla Schwenk

La giovane regista turco-svedese Süheyla Schwenk realizza il suo primo lungometraggio, la storia di una coppia di sposi rifugiati, a Berlino in attesa di conoscere il loro destino.

Jiyan, il titolo, in curdo significa “vita”, e il film non tradisce il suo nome, facendosi, della vita, inno. È, infatti, proprio la vita il centro di questa opera prima molto riuscita della regista Süheyla Schwenk. Classe 1985, nata in Svezia ma cresciuta in Turchia, Süheyla Schwenk segue un coppia di giovani rifugiati – il turco Harun e la curda Hayat – a Berlino, città nella quale vengono ospitati dallo zio di lui, nonostante le resistenze e le aperte ostilità da parte di sua moglie.

Innamorati e in attesa di un bambino, Harun e Hayat non rinunciano a continuare la loro esistenza anche nello stato estremamente provvisorio e scomodo di ‘ospiti’ – ospiti in casa di parenti, ospiti in terra straniera – e la fiducia con cui danno alla vita il piccolo Umut testimonia il loro credo nella bellezza, nonostante tutto, dello stare (e del mettere) al mondo. Un evento inatteso, però, scompagina tutto, assumendo la funzione di metaforizzare la condizione di invisibilità a cui sono costretti i rifugiati, sospesi tra passato e futuro.

Jiyan: storia di una coppia di sposi, lui turco, lei curda, in lotta per il futuro

Harun (Baran Sükrü Babacan) e Hayat (Halima Ilter), la coppia protagonista del film

La guerra ritorna attraverso gli incubi, sintomi di una sindrome di stress post-traumatico, a visitare le notti di Hayat, riportandola nel luogo che desidera abbandonare. Tuttavia, il passato, in questo film a suo modo poetico, è lasciato dietro la porta perché il futuro è il tempo da guadagnare, è la dimensione verso cui si prende la rincorsa. Senza dimenticare, però, di vivere il presente, anche se affollato di incognite e denso di umiliazioni. Nel modo in cui si ammorbidiscono poco a poco le asperità del carattere burbero della zia (nel film tutti si chiamano ‘fratello’ o ‘sorella’, ma ciò non rappresenta per gli spettatori poco avvezzi a questa abitudine turca alcun elemento di confusione) c’è qualcosa di appassionante. La Schwenk dimostra tutta la sua bravura proprio nel valorizzare e vivificare la quotidianità, cercando nella sua trama apparentemente insignificante i segni di una trasformazione silente, ma nondimeno ostinata nel suo protendere verso una meta luminosa.

Jiyan: un film ‘benefico’ che celebra la vita, anche nell’esperienza del dolore e della perdita

Una scena di ‘Jiyan’, presentato al Taormina FilmFest

Esempio di un cinema umanistico dagli accenti delicati che non ricorre mai al ricatto emotivo ed anzi si rifiuta di utilizzare in modo sensazionalistico o ricattatorio il dolore, Jiyan celebra la vita di chi avrebbe tutte le ragioni per rinunciarvi e, invece, insegue, senza gesti prepotenti o rivendicatori ma con la naturalezza di un genuino attaccamento, l’occasione di continuare, di andare avanti, di generare anziché distruggere. Il finale, amaro, benché ci riporti all’ingiustizia come condizione intrinseca all’esperienza di realtà, non riesce a dissipare del tutto la sensazione di trovarci di fronte a film concepito anche come un atto di gratitudine, di irriducibile amore verso l’esserci. Qui e ora.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4