Il sapore della felicità: recensione del film con Gérard Depardieu
Gérard Depardieu è uno chef infelice alla ricerca dei segreti del sapore perfetto. Il sapore della felicità arriva nelle sale italiane il 31 agosto 2023, tra acrobazie culinarie e la scoperta di mondi e gusti lontani.
A prima vista, non manca niente. Viaggi, cucina, esotismo vs. Vecchio Continente, il divismo piegato dal tempo (e dalla vita) di un vecchio, folle leone del cinema. Malinconia e desiderio di rinascita, amore in formato famiglia. Il sapore della felicità, regia di Slony Sow, nelle sale italiane dal 31 agosto 2023 per Wanted Cinema, ha le idee chiare sulla ricetta, gli ingredienti e il dosaggio. In scena e dietro le quinte, la missione è sempre la stessa, l’ostinata ricerca del sapore totale, quello che apre le porte del piacere, libera la felicità e addormenta i fantasmi del passato. Il film prova a fare centro accumulando idee e temi, giocando sull’equilibrio instabile di lacrime e risate.
Ci riesce, a volte incespicando, che il passo è tutt’altro che sicuro; a restare in tema di orride metafore culinarie, troppa carne al fuoco e il risultato è un film benintenzionato ma anche un po’ confuso. Retto, su questo non c’erano dubbi, dal carisma e dalla fisicità appesantita, stropicciata e indomabile, di Gérard Depardieu. Lo accompagnano Sandrine Bonnaire, Kyôzô Nagatsuka, Pierre Richard, Sumire, Rod Paradot. Non si può parlare del film se prima non si accenna molto rapidamente all’umami. Sarebbe anche il titolo originale, a dirla tutta.
Il sapore della felicità: la ricerca dell’umami e del tempo perduto
C’è il dolce e il salato, l’aspro e l’amaro. E poi c’è l’umami, il quinto sapore, codificato in Giappone nel 1908 ma poco conosciuto da noi. L’umami è la balena bianca di Gabriel Carvin (Gérard Depardieu), chef francese di prima grandezza, infelice in modo direttamente proporzionale al successo professionale. Con il suo bel ristorante nel castello e le interviste in Tv, Gabriel ha perso il gusto per la vita. La seconda moglie (Sandrine Bonnaire) lo tradisce con il critico gastronomico che lo ha lanciato tanti anni fa, la prima è morta di cancro. Ha due figli. Il più grande lo imita e fa lo chef pure lui, scimmiottandone le ricette senza il coraggio di proporre nulla di suo, metafora abusata ma sempre efficace. Quello più piccolo, Nino (Rod Paradot), è troppo idealista e puro di cuore perché il padre riesca a stabilire un dialogo.
Gabriel mangia troppo, beve troppo, pesa troppo. Puntuale, il cuore fa crac. Riesce a scamparla per il rotto della cuffia, blando eufemismo per cinque bypass, gli viene un’idea. Tutta colpa di una seduta d’ipnosi che, dagli anfratti più polverosi della memoria, pesca il jolly, un sapore ineffabile e straordinario. Era il 1978 e al concorso culinario della sua vita Gabriel inaspettatamente arriva secondo, battuto da uno chef giapponese, Tetsuichi Morita (Kyôzô Nagatsuka), che stende tutti con dei noodles superlativi. Gabriel vola in Giappone per cercare l’uomo che gli ha cambiato la vita, in peggio s’intende, consegnandolo a un’esistenza di successi e di rimpianti. In Giappone spera di trovare il segreto dell’umami, l’inafferrabile sapore che rimetterebbe in sesto la sua vita.
Il sapore della felicità vuole prendere in contropiede il pubblico ma per riuscirci ha bisogno che, a non capirci niente, siano prima di tutto i personaggi. Gabriel, in Giappone, è convinto di trovare Tetsuichi all’apice del successo e invece niente, ha un normalissimo localino in periferia che manda avanti con la figlia Fumi (Eriko Takeda) e la nipote Mai (Sumire), che ha necessità di recuperare la voglia di vivere dopo un’esperienza orribile. Nulla in Tetsuichi allude alla grandezza passata. Hanno davvero bisogno l’uno dell’altro, pieni di rimpianti come sono e con la fine che si avvicina. Cercare il segreto dell’umami è un modo per recuperare il tempo perduto e, letteralmente, perfezionare il sapore di una vita. Ad aiutarli ci pensano Mai e Nino, arrivato in Giappone all’insaputa del padre. Si troveranno reciprocamente simpatici. La verità è che la ricetta del film ha tanti ingredienti. Più di quanti riesca a lavorarne.
Tanti sapori, troppi sapori, se non si trova il modo di dosarli
Il sapore della felicità è la somma di tante piccole cose. Serenità in famiglia, un pizzico di creatività, un rapporto sano con il tempo che passa, tanta curiosità. Il sapore della felicità, il film stavolta, chiede forse troppo per quelle che sono le sue possibilità. Slony Sow punta al piatto ricco stuzzicando il palato dello spettatore con un’offerta incredibilmente stratificata di temi, angolazioni e piste narrative. Manca il tempo di approfondirne il gusto e l’immaginazione necessaria a miscelare la massa di ingredienti e farne un tutto organico, gustoso e coerente. Vale la pena di buttar giù un elenco.
Il tempo che lavora i corpi e l’anima, l’on the road esistenziale e quello tout court. Differenze culturali, la forza rigeneratrice del contatto con un mondo “altro”, la necessità di un linguaggio comune oltre i limiti della traduzione, la ricerca del tempo perduto e del sapore su misura. L’eredità paterna e come tracciare la propria strada affrancandosi dall’ombra altrui. Si trova anche il tempo e il modo di accennare al revenge porn. Una discreta confusione di proposte, a ricordarci che l’ambizione è meritevole se affiancata da mano ferma e senso della misura. Il sapore della felicità è una commedia agrodolce, dal buon ritmo e nel complesso godibile, frustrante nella misura in cui le idee seminate sono più degli spunti raccolti.
Malizioso e tenero insieme, il piglio con cui il film affronta la stazza ingombrante e il profilo leggendario del protagonista. Gérard Depardieu mette in gioco un corpo appesantito da molti eccessi e un presente controverso di star scandalosa. Ecco, se c’è una cosa che il film sa far bene è spiegarci il tempo che passa attraverso i corpi che cambiano, evidenziandone le piccole e grandi imperfezioni, liberando potenzialità e carisma inespressi. Interessante è pure l’esplorazione del rapporto tra uomo e ambiente, l’idea che il modo con cui modelliamo e occupiamo lo spazio tradisca riflessi e segreti della nostra personalità. Troppo frettoloso, tuttavia, troppo ansioso di cercare a tutti i costi una quadratura del cerchio che spazzi via le zone d’ombra nella vita dei personaggi, il finale, non del tutto soddisfacente.
Il sapore della felicità: conclusione e valutazione
Ci sono due uomini di talento, due chef, non più giovanissimi, un francese e un giapponese. Il francese vive e lavora in un castello bellissimo, elegante, imponente. Ma anche freddo e sterile, come la sua vita fino a questo punto. Il giapponese ha un ristorantino accogliente. Sa di casa, in modo un po’ sciatto e impersonale. Entrambi attraversati, l’uno e l’altro, a un certo punto, dal sapore perfetto, quello che avrebbe messo a posto tante cose. Inseguirlo insieme è il modo migliore per ricostruirsi la vita. La forza della metafora è indiscutibile, ma Il sapore della felicità affoga le sue potenzialità in un tripudio di idee e di rumore. Una profondità inusuale per il tipo di commedia, ma anche la fonte una certa confusione.