Il Sabba: recensione del film Netflix di Pablo Agüero

Ne Il Sabba sei giovani donne accusate di stregoneria sono le protagoniste di un ambizioso (e attualissimo) dramma-femminista sulla lotta al patriarcato, la misoginia e i pregiudizi. Dall’11 marzo su Netflix.

Un’inclinazione cinematografia non troppo recente, tende a ricondurre tematiche femminili sulla liberazione e la lotta al patriarcato con la riscoperta in parallelo (e sorprendentemente affine) di storie di streghe e della loro persecuzione in epoca oscurantista. Ritenute eretiche e pagane già a partire dal 900 d.C., la “grande caccia” alle streghe fu un fenomeno che, nell’abbracciare il corso di tre secoli dell’Età di Mezzo, ancora oggi riemerge come interessante analogia fra la condizione di alcune donne libere, ribelli e autodeterminate di allora  ̶  dunque pericolose  ̶  con i sommovimenti femministi dell’era post #MeToo.
Con Il Sabba, infatti, il regista argentino Pablo Agüero, allinea al lavoro già messo in piedi con il recente Suspiria di Guadagnino, la scelta di connettere le contestazioni e le limitazioni femminili contemporanee al potere rivoluzionario e sconvolgente delle streghe danzatrici del sabba e arse nei roghi inquisitori dell’Europa pre rinascimentale, attualizzandole con tematiche a lui care quali i pregiudizi e la misoginia, fino all’imitazione e l’obbedienza delle masse nei social network.

Il Sabba è tratto dalla vicenda e dai trattati dell’inquisitore francese Pierre de Lancre

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Scritto a quattro mani con Katell Guillou il film (disponibile su Netflix dopo il passaggio al Festival internazionale del cinema di San Sebastián e cinque premi Goya) basa la sua vicenda dal libro Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons del magistrato e inquisitore francese Pierre de Lancre pubblicato nel 1612. Il trattato attirò a sé perfino l’attenzione del re Enrico IV, il quale lo incaricò di dirigere alcune indagini su presunti casi di stregoneria nel Labourd, seminando il panico nella popolazione delle Euskadi costretta poi a rifugiarsi in Spagna nel corso del XVII secolo.

Una sensazione di minaccia costante, quella dei Paesi Baschi, percepita non solo sulla linea del tempo Storico, quanto in quella dei primi minuti del film stesso, quando sei giovani tessitrici di canapa intente in canti popolari e mansioni quotidiane, vengono improvvisamente rapite e portate con forza nella prigione di Labort, villaggio a strapiombo sul mare popolato ormai solo da donne dopo la partenza stagionale dei pescatori. Lì, le cinque “brujas”, private dei loro abiti e costrette ad atroci torture per farle confessare, progettano astutamente di assecondare le presunte accuse di convegni sacrileghi nella radura mosse dal giudice Rostegui (Alex Brendemühl ) e dal suo Consigliere (Daniel Fanego).

Poche luci e molte ombre all’epoca dell’oscurantismo

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Nel tentativo di rimandare l’imminente processo e l’inevitabile condanna al rogo Katalin, Marìa, Maider, Olaia, Oneka (le esordienti Garazi Urkola, Yune Nogueiras, Jone Laspiur, Irati Saez de Urabain, Lorea Ibarra), in un patto di sorellanza mettono a punto un disegno di ‘resistenza attiva’, in cui il potere sovversivo della loro anima libera e ribelle sfrutterà anche quello seduttivo della più astuta di loro, Ana (Amaia Aberasturi) che, letteralmente, stregherà le fragili e ottuse convinzioni maschili di Rostegui, svelando e ribaltando simbolicamente le precarie strutture del potere patriarcale di allora come adesso.

Il regista, nel dare la luce ad un progetto rimasto nel cassetto dal 2008 e riemerso con il discorso sul femminile degli ultimi anni; e nello sfruttare il potere sfuggente dei rituali magici e orgiastici in presenza del Diavolo, spesso praticati in luoghi oscuri e ambigui come lo è il crocevia del mare nel film (“una strada senza strade” appunto), sceglie di evitare i clichè narrativi e visivi tipici dei drammi in costume, riponendo lo sguardo né sul paesaggio, né sulla ricostruzione storica ma piuttosto nel tratteggiare le psicologie sia interiori che di gruppo delle sue protagoniste e del loro POV empatico.

Il corpo femminile è pronto ad ardere. Ma della propria libertà

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È nella capacità dello stesso Agüero nel paragonarle a ragazze di oggi, con la loro caparbietà giovanile pronta ad assumere le redini della propria agency, che Il Sabba si presta ad essere racconto tenacemente attuale e femminista, contorcendo e liberando il corpo dalle torture e dalle catene che imbrigliano, ancora per poco, la fiamma pronta ad ardere sotto le ceneri del potere. Una fiamma attenta ad illuminare ma non troppo, simbolo dei Lumi rinascimentali contro il buio dell’oscurantismo riverso in una minuziosa messa in scena e una fotografia curata e calibrata sulle ombreggiature naturali e organiche degli spazi della prigione, per poi aprirsi alla luce solare inondante negli attimi di alcuni ricordi mostrarti con lirici primi piani malickiani, sapientemente costruiti su un inedito montaggio rapido e tagliente per dargli un nuovo significato.

Il dramma femminista sceglie sin da subito di non limitare il suo narrarsi sulla limitazione del caso medioevale, ma fa dell’autodeterminazione, della liberazione sessuale, della ribellione e della vivacità adolescenziale la vera, anzi la nuova, stregoneria dirompente pronta a ergersi simbolo dell’Eva biblica ora disobbediente e non più sottomessa. E se è la donna che non tiene più lo sguardo basso; non più assertiva e che non teme più gli uomini ad incarnare l’inizio perfetto di un nuovo peccato – o di una stregoneria da legare viva alle fiamme – allora quella di Ana, Katalin, Marìa, Maider, Olaia e Oneka è solo l’inizio.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.4