Il rapimento di Arabella: recensione del film da Venezia 82
Una fiaba suburbana con ispirazioni coeniane, che fatica a trovare la propria dimensione cinematografica.
Presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia, Il rapimento di Arabella è il nuovo lavoro di Carolina Cavalli, che dopo l’opera prima Amanda ripropone il proprio interesse per personaggi eccentrici e atmosfere surreali, ma sceglie questa volta una cornice ancora più rarefatta, quasi favolistica. La regista costruisce un racconto che si sottrae alle coordinate di un’ambientazione riconoscibile per restituire un’esperienza universale, come se la storia potesse svolgersi ovunque e in nessun luogo. Una scelta ambiziosa, che però si traduce in un’opera sconnessa, incapace di lasciare l’impronta del proprio passaggio.
Il rapimento di Arabella: tra i fratelli Coen e The Florida Project
La storia prende il via dalla fuga della piccola Arabella, interpretata con sorprendente naturalezza da Lucrezia Guglielmino, che scappa dal padre, uno scrittore frustrato interpretato da Chris Pine. Arabella si imbatte casualmente in Holly (Benedetta Porcaroli), una studentessa di fisica segnata dalla piattezza dei non-luoghi in cui vive e si muove. Arabella, con un gesto di leggerezza e crudeltà infantile, le fa credere di essere la sua versione bambina innescando un cortocircuito identitario: Holly, già fragile, vede nella piccola la possibilità di ricongiungersi con sé stessa, di tornare indietro e riscrivere la propria storia. Convinta che questo incontro sia reso possibile da buchi nel tessuto spazio-temporale, decide di trattenere Arabella con sé e partire all’avventura insieme.
L’intento è chiaro: raccontare una fiaba contemporanea che rifletta sul rapporto con il proprio bambino interiore, usando il rapimento come metafora della necessità di fare i conti con quella parte infantile rimossa o soffocata. Ma il ritmo dilatato e i dialoghi rarefatti, che sono cifra stilistica del film, non riescono mai a trasportare fino in fondo lo spettatore su quel livello di surrealismo e ironia che il film vorrebbe trasmettere. Cavalli sembra guardare tanto al cinema più grottesco dei fratelli Coen quanto alla realtà sospesa e malinconica dello Sean Baker di The Florida Project, ma questi riferimenti rimangono in superficie, come se fossero solo evocati dal tono e dalle scenografie più che rielaborati.
L’utilizzo di elementi bizzarri per generare straniamento
Il problema non è soltanto la lentezza, quanto l’assenza di un reale coinvolgimento emotivo. La commedia dell’assurdo, almeno nelle intenzioni, dovrebbe generare quello straniamento fertile che permette di identificarsi in dei protagonisti fuori dal mondo, ma qui il paradosso non funziona mai del tutto. Il meccanismo del bizzarro, attuato sia attraverso i dialoghi che le azioni dei personaggi, resta sterile. Si ha spesso la sensazione che il film voglia rimandare a un significato ulteriore, ma che questo resti sempre fuori portata, come un enigma troppo esplicito per essere davvero misterioso e troppo fragile per reggere il peso della metafora.

Buone interpretazioni, ma che non riescono a salvare il film
La recitazione degli attori è tra gli aspetti più degni di nota: Porcaroli riesce a dare ad Holly una fragilità concreta, capace di emergere anche nei momenti più sfilacciati della narrazione; la piccola Guglielmino, invece, colpisce per spontaneità e carisma, risultando di gran lunga la presenza più vitale del film. Il resto del cast rimane in ombra: Pine appare un corpo estraneo, privo di funzione narrativa, mentre gli altri personaggi sembrano più figure di contorno che veri interlocutori. Solo sul finale arriva un momento di autentica intensità: un monologo che tenta di sciogliere le ambiguità e restituire senso all’intero percorso. Ma proprio questa dichiarazione poetica troppo diretta rivela il limite del film: ciò che avrebbe dovuto mostrarsi in filigrana viene invece spiegato apertamente, togliendo forza all’insieme. L’impressione è che Cavalli abbia preferito ribadire le proprie intenzioni piuttosto che lasciarle respirare attraverso le immagini.
Il rapimento di Arabella: valutazione e conclusione
Il rapimento di Arabella resta un film sospeso, avulso dal contesto, incapace di trovare il proprio tempo. Non basta e non funziona l’alibi della fiaba surrealista: il rischio è che la sospensione si trasformi in vuoto, e che lo spettatore rimanga escluso da un universo che avrebbe dovuto accoglierlo. È un’opera che forse avrebbe avuto senso in un altro momento storico ma che oggi, specialmente nel panorama del concorso di cui fa parte, sembra spaesata. In sintesi, è un esperimento coraggioso, ma poco incisivo; un’opera che, come uno dei buchi di cui parla a più riprese Holly, rischia più di inghiottire le sue buone intenzioni che di attrarre lo spettatore.