Il castello indistruttibile: recensione del film
Un documentario poetico che trasforma l’infanzia in un luogo da proteggere, raccontando sogni, paure e desideri di quattro bambini nel cuore di Danisinni.
Un film che si fa laboratorio didattico e palestra di vita, recuperando il senso di comunità e la sacralità dell’immaginazione. Il castello indistruttibile, diretto e sceneggiato da Danny Biancardi, Virginia Nardelli e Stefano La Rosa e presentato fuori concorso al 20° Sole Luna Doc Film Festival (dove ha vinto il Premio Sole Luna – un Ponte tra le culture) dopo un passaggio al Biografilm di Bologna, è un’opera partecipata dall’evoluzione cangiante in cui il quartiere palermitano di Danisinni diventa una specie di Isola che non c’è, un luogo privato e incantato in cui quattro bambini di appena 11 anni, Angelo, Mery, Rosy e Giada, cercano di ritagliarsi uno spazio intimo e, nella loro memoria, indistruttibile.
Il castello indistruttibile: poesia di un’infanzia al termine

L’asilo abbandonato di un quartiere a lungo attraversato dal degrado diviene il posto ideale per creare un rifugio singolare, lontano dal mondo adulto, lo stesso che pian piano sta iniziando a macchiare di responsabilità la loro infanzia, scurendo i contorni del possibile per accartocciarsi tra le righe di storie già scritte.
I color accesi della fotografia, l’arredamento improvvisato che adagio si fa spazio tra la sporcizia e i calcinacci; i quadri e gli specchi alle pareti, gli stracci a far da muri; tutto convoglia in inquadrature atte a farci scorgere la meraviglia degli occhi che si stagliano tra i buchi di cemento, il sole che si fa largo tra i rami, uova da covare che si appiccicano tra le mani, i libri in cui scoprire cose nuove, uccelli che svolazzano seguendo la luce e lampadine accese come falò nel deserto. Mani piccole, accortezze innocenti e segreti sussurrati iniziano ad aleggiare nei confini di una stanza che per i tre giovani protagonisti diviene dimora. “M+R+A = casa nostra” scrive una delle bambine sulla parete, in una frase che nella sua semplicità grida il profondo bisogno di appartenenza, nonché il desiderio di restare in quel limbo, in quell’istmo generazionale in cui non si è del tutto bambini ma non si è neanche totalmente degli adolescenti, degli adulti. I tre protagonisti, a cui si aggiunge anche una quarta bambina (Giada, capace di introdurre il gruppo a ragionamenti più maturi) covano in sé la voglia di restare al sicuro, fantasticando sull’idea di essere altro dall’essere umano (“Sono un lupo”, dice Angelo), di essere spiriti staccati dal corpo e perciò accaparrarsi la possibilità di restare lì, in quella casa fatiscente, a giocare per sempre.
Ma la bellezza de Il castello indistruttibile non risiede solo in questo affresco dell’ultima fase dell’infanzia, quanto nella capacità di intersecare l’immaginazione con la realtà, lasciandoci toccare con mano i pensieri di chi vive in un contesto limitato, consapevole di non avere via di scampo. Angelo, Mery, Rosy e Giada esaminano criticamente la condizione in cui riversano, sanno che non vorrebbero essere come i loro genitori: donne vincolate agli affari domestici, uomini in prigione, senza arte, senza studio, senza prospettive. E sanno anche che tra poco la vita li allontanerà, che si guarderanno salutandosi appena, nonostante abbiano condiviso così tanto. Lo sanno e vorrebbero fermare il tempo, non crescere più, un po’ come il Peter Pan che non viene mai citato ma a cui tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo aspirato.
Nel film questo passaggio assume un taglio più netto e drastico, in cui la fine dell’età della spensieratezza e dei giochi viene rimarcata dall’arrivo delle ruspe, pronte a smantellare quella fortezza incantata per trasformarla in un asilo nido. Così la rinascita di un quartiere coincide con la fine di un sogno, in un gioco naturale di trasformazione che è parte integrante ed inevitabile dell’esistenza umana e animale.
La delicatezza di una colonna onora che celebra “la più piccola delle vittorie”

Ne Il castello indistruttibile anche la colonna sonora gioca un ruolo essenziale, con picchi di euforia fino a un finale che, letteralmente, elogia “la più piccola delle vittorie” (traduzione del titolo del brano Den minsta av segrar, che ascoltiamo alla fine). E la vittoria, in questo caso, è tutta concentrata dentro l’animo di questi piccoli protagonisti, cuore pulsante di un film che gli autori hanno costruito pian piano, entrando in punta di piedi nelle dinamiche del quartiere e, successivamente, nella vita di questi bambini, varcando confini delicatissimi e coloratissimi, fino a scomparire dalla scena per lasciare spazio alle loro storie, al fluire meraviglioso delle loro vite, che in Il castello indistruttibile restano cristallizzate, manifesto dei loro sogni e di tutta quella meravigliosa immaginazione, scrigno indistruttibile di ciò che è stato, in un tempo felice in cui hanno sognato di essere lupo, spirito, aquila, di percorrere strade diverse da quelle imposte.
Il castello indistruttibile: valutazione e conclusione
Prodotto da ZaLab insieme alla francese Société Du Sensible e distribuito da ZaLab (mentre Fandango si occupa della distribuzione internazionale) con il sostegno del Ministero della Cultura e di SIAE nell’ambito del programma #PerChiCrea, Il castello indistruttibile è una di quelle opere da vedere per sentirsi nuovamente piccoli, liberi e al sicuro; capace di trascinarci verso un luogo segreto, concretamente invisibile, ma che continua a esistere, seppur nelle lande più remote del nostro cuore e della nostra immaginazione. Questo film vi porta lì dove sapete, dove un tempo siete stati, lo stesso posto dal quale vi hanno portati via, ma che se chiudete gli occhi è lì, nella stanza adiacente al battito.
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