I colori del tempo: recensione del film di Cédric Klapisch

Parigi, l'Impressionismo, i sentimenti e le cose che non cambiano tra passato e presente. I colori del tempo, regia di Cédric Klapisch, arriva in sala il 13 novembre 2025.

In arrivo nelle sale italiane il 13 novembre 2025 per Teodora Film, a qualche mese di distanza dal passaggio Fuori Concorso a Cannes, I colori del tempo – titolo originale Le venue de l’avenir – non è il solito viaggio nel tempo. Il film, diretto da Cédric Klapisch (L’appartamento spagnolo, 2002) e scritto insieme a Santiago Amigorena, cerca un complicato equilibrio tra passato e presente. Non è fantascienza, non è azione e umorismo con annesso sottotesto malinconico, non è la ricerca insistita di feticci della cultura pop di ieri e di oggi da rivisitare in maniera ironica e provocatoria. No, I colori del tempo mette in comunicazione due mondi lontani per parlare di memoria, identità, arte e cambiamento, e tutto nel nome di un cinema popolare, democratico, non arroccato sul prestigio dei temi e aperto al pubblico; è spettacolo con un’idea, pur sempre spettacolo. Un bel cast corale, spiccano Vincent Macaigne e Suzanne Lindon, ma non ci sono solo loro. 

I colori del tempo: la casa dell’antenata è piena di bei segreti

I Colori del Tempo; cinematographe.it

In Francia, I colori del tempo è stato un bel successo; avere Parigi, in due epoche storiche differenti, una delle quali è tra i momenti più alti nella storia culturale del paese, ha dato una grossa mano. C’è da dire che Cédric Klapisch, per sua ammissione, ha sempre nutrito una particolare ossessione per la Francia di fine Ottocento, per il fermento culturale dell’epoca, per le innovazioni in ambito pittorico, per l’Impressionismo. I colori del tempo è l’occasione di integrare il discorso su arte, pittura e fotografia – si parla anche del rapporto tra memoria, tempo e identità – ai sentimenti, alla quotidianità e alla vita delle persone. Non c’è impressionista, o Claude Monet, che tenga: I colori del tempo è la storia di una famiglia, colta in due momenti diversi (diversi?) della sua evoluzione.

Il presente, il punto di partenza per lo spettatore, è la Francia del XXI secolo. Un certo numero di membri della stessa famiglia viene informato dell’esistenza di una casa in campagna abitata, più di un secolo prima, dalla capostipite. Sono talmente tanti che ne vengono scelti quattro per occuparsi della proprietà e fare l’inventario. Si tratta di Guy (Vincent Macaigne), Céline (Julia Piaton), Abdelkrim (Zinedine Soualem) e Seb (Abraham Wapler). Non si sono mai visti prima, non si somigliano molto, ma la misteriosa faccenda dell’eredità li aiuta a guardarsi dentro e a costruire un legame poggiato sui trascorsi degli antenati. I colori del tempo non dedica tutto il tempo che potrebbe ai quattro protagonisti, perché deve occuparsi anche del passato. Il passato è un grosso punto di domanda: chi era davvero la capostipite? E perché ha lasciato la campagna francese per andare a Parigi nel 1895?

Adèle Meunier (Suzanne Lindon) va a Parigi in cerca della madre (Sara Giraudeau). Arrivata a Parigi, stringe amicizia con due aspiranti artisti, l’uno pittore l’altro fotografo, Lucien (Vassili Schneider) e Anatole (Paul Kircher). Il mondo sta cambiando – è l’ora dell’Impressionismo, di relazioni personali più libere e della luce elettrica – e toglie punti di riferimento alle persone, mentre Adèle cerca la madre e insieme a lei se stessa. È attraverso il cammino della protagonista, interpretata con grazia dignitosa e fierezza da Suzanne Lindon, che I colori del tempo trova il modo di legare gli aspetti più teorici del film al suo cuore sentimentale, intimo. La vita della capostipite è riletta dagli eredi nel presente, che si interrogano sull’eredità e ne misurano l’influenza nella loro vita. È una struttura narrativo-tematica abbastanza complessa, ma Cédric Klapish riesce a tenere tutto insieme con un buon mix di poesia dei sentimenti e spessore tematico.

Le cose restano uguali, anche quando tutto cambia

I Colori del Tempo; cinematographe.it

Più spettacolo che profondità, ma procedere altrimenti avrebbe spuntato la storia, che acquista forza e spessore esattamente perché rifiuta di prendersi troppo sul serio. Solo in apparenza il macrotema è la memoria, o come l’arte sia in grado – con quanta precisione, con quanta ambiguità – di fermare il tempo e far vivere le sue verità oltre i limiti della condizione umana. Più in profondità c’è un senso diverso, ed è questo che sta a cuore al film: raccontare di come le cose restano uguali, anche quando tutto cambia. La morale della favola è meno gattopardesca di quanto sembri, meno cinica, o forse è cinica e Cédric Klapish è stato bravo a nasconderne la malizia dietro una patina di grazia malinconica.

Cambiano le parole, non i significati; il modo di vestire, non la voglia di esprimersi e affermare la propria identità. Si allungano o si accorciano le distanze tra noi e le cose che amiamo ma, sottolinea I colori del tempo giocando a ping pong con il tempo, ci sono cose che restano: il bisogno di essere amati e di amare, la voglia di essere riconosciuti dagli altri, il desiderio di famiglia, mentre sullo sfondo il mondo corre in modo frettoloso ed è difficile tenere il passo. Il 1895 è anche il 2025, 2035, 2045. Il gioco del film, nella prima metà, è sottolineare la distanza tra ieri e oggi, e ci riesce con un montaggio forse un po’ più macchinoso del necessario. Nella seconda metà, la più riuscita, ribalta la proposizione e mostra il XIX e il XXI secolo come due sfumature dello stesso eterno presente, un tempo che cambia solo nelle apparenze: le domande, le risposte (quando ce ne sono), i sentimenti, sono gli stessi.

I salti tra passato e presente si fanno più fluidi al punto di arrivare all’unione perfetta, complice un trip a base di Ayahuasca (infuso psichedelico) che “trasporta” i quattro del XXI secolo nel mondo di Adèle, dove il personaggio interpretato da Julia Piaton riceve il corteggiamento di monsieur Victor Hugo (François Berléand). Dura poco, ma l’intreccio di epoche e personaggi mette il film in connessione con il suo nucleo tematico senza sacrificare, anzi valorizzando, lo spettacolo. Ora, l’equilibrio è perfetto fino al punto in cui smette di esserlo. Tante idee e personaggi perché tutto leghi con esattezza matematica. Va meglio al 1895. Lì l’attenzione al dettaglio è scrupolosa, Suzanne Lindon ha tutto quello che serve a cominciare dall’irritualità spigolosa dei suoi lineamenti, ed è la stella incontrastata del suo mondo, mentre gli altri le stanno solo intorno. Il presente invece ha quattro protagonisti, tutti sullo stesso livello, e fatica a dare a ciascuno quello che merita. Era impossibile il perfetto equilibrio; e sì che il film ci si avvicina, e va bene così.

I colori del tempo: valutazione e conclusione

La menzione conclusiva va alla fotografia di Alexis Kavychrine, che ricostruisce il sapore di un’epoca, la Parigi di fine Ottocento, con precisione di toni e sfumature – per come ovviamente, siamo abituati a conoscerla grazie alla mediazione delle opere d’arte del periodo, una considerazione molto coerente con il senso del film – e sobrietà. L’estetica non lavora mai a spese della storia e dei sentimenti. Funziona meglio la metà 1895, e si è spiegato il perché: il presente ha tanti protagonisti e non abbastanza tempo per definirne psicologie, passato – Cécile de France, c’è pure lei, meritava più spazio – e dargli la centralità della capostipite interpretata da Suzanne Lindon. Emerge, come sempre, l’umorismo dolce e infantile (nell’accezione più positiva possibile) di Vincent Macaigne. Se però, con I colori del tempo, l’intento di Cédric Klapisch era di tendere una corda sottile tra passato e presente per parlare d’amore, di vita, di famiglia e identità, del rapporto tra arte e memoria e di come il passato influenzi il presente – il tutto inserito in una dimensione di cinema spettacolare e assolutamente popolare – al netto degli inevitabili squilibri, l’obiettivo può dirsi centrato.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.2