How I Became a Gangster: recensione del film Netflix di Maciej Kawulski

Dal 4 gennaio arriva su Netflix il secondo film del regista polacco Maciej Kawulski dopo Underdog e How I Fell in Love with a Gangster. La recensione di How I Became a Gangster

Di criminalità organizzata il cinema ce ne ha raccontata di ogni tipo: messicana, colombiana, giapponese, russa, americana, indiana e per ovvie ragioni italiana. Quella polacca, dedita soprattutto al traffico di droga e di armi, è quella forse meno altisonante; tuttora volutamente discreta nel gestire i vari traffici e monopoli sul territorio e dunque, di fatto, di minor clamore mediatico rispetto a molte altre più risonanti nella cronaca nera mondiale di cui siamo, per quanto possibile, aggiornati. How I Became a Gangster (su Netflix dal 4 gennaio), semi-biografia su uno dei mafiosi più potenti della Polonia il cui nome però non ci viene mai rivelato, comincia come la storia di un ragazzino di buona famiglia, irrefrenabilmente attratto dal crimine, che fra gli anni Ottanta e i primi Novanta raggiunge i vertici della malavita del paese, fino al voluto allontanamento dal ‘giro’ e il conseguente arresto.

How I Became a Gangster: auto-biografia semi seria di un criminale senza nome

Dichiaratamente ispirato a fatti realmente accaduti, ma lasciando il protagonista senza nome si suppone questo sia la fusione di diverse vicende, figure o ex tali della mafia polacca, il film di Maciej Kawulski si struttura per tutta la sua lunga durata di oltre due ore ripetendo meccanicamente lo stesso schema: l’onnipresente voice over del protagonista (Marcin Kowalczyk) ci accompagna nei retroscena della sua sfrontata esistenza, tornando indietro di quarant’anni quando lui, bambino figlio di onesti lavoratori, a dieci anni si ritrova a fare a botte a scuola, a rubacchiare qua e là, a guidare macchine verso hotel frequentati dalla mala della città più influente Pruszków. Un’ambizione tale che lo porta ventenne prima a gestire un giro di prostituzione e poi a lavorare per conto di un boss, finendo per la prima volta in galera a causa dell’imperdonabile sciatteria dei suoi maldestri compagni nell’aver organizzato (male) una rapina.

Uscito di prigione e deciso a lavorare per conto suo, l’ex galeotto assembra una squadra coi suoi membri più fidati e comincia a fare tutto quello che si presuma faccia un criminale: uccidere, rapinare, contare i soldi, puntare le pistole, rompere le ossa, minacciare, sfuggire alla polizia, darsi al sesso più sfrenato e tenere imperterrito l’allure di un uomo tutto d’un pezzo. Fino però a un bivio di coscienza che lo costringerà a prendere una decisione, facendo cadere l’impianto principale della mafia polacca di quegli anni.

Dopo, anzi prima di I Fell in Love with a Gangster (2022), il regista polacco e produttore di 365 giorni riprova a raccontare i fasti e nefasti della criminalità organizzata polacca

Così, fra nasi rotti e sangue che cola dal naso, machismo esibito e tempra dell’uomo che non perdona mai, How I Became a Gangster compie la più classica delle parabole discendenti di un delinquente senza scrupoli sulle orme di Scarface, in cui ne succede praticamente di ogni e velocemente, in un tourbillon fascino del male, facce grottesche e stereotipi del genere, divertente nei primi minuti ma tedioso e poco interessante a lungo andare.

Immettendosi nella strada ampiamente tracciata da approccio gangster-buddy-movie frenetico e rocambolesco di autori avvezzi come Guy Ritchie, l’opera terza di Kawulski (produttore anche della trilogia 365 giorni), arrivata ora su Netflix ma datata 2019 come l’altro lavoro del regista Underdog e di How I Fell in Love with a Gangster uscito invece lo scorso anno, seppur non disdegnando quanta più volenza possibile, ralenti stilosi e una colonna sonora che accalappia tanti, confusi generi e sonorità (Moby, Vangelis, The Ronettes, Deep Purple, Ludovico Einaudi, Skunk Anansie, pop-rock polacco e perfino l’azzardo con Koyaanisqatsi di Philip Glass) finisce per sgretolarsi verso un’impresa sfiancante da seguire e di cui appassionarsi. Un continuo tentativo di ingannare lo spettatore sulla debole scrittura e struttura con quante più soluzioni estetiche esagerate ed esagitate possibili, che affannano la visione e la comprensione lineare di una biografia dall’interesse altalenante, celata da un mistero identitario che sembra non aggiungere nulla alla particolarità di un gangster-movie tutto fumo e poca sostanza.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 2

2.5

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