Foglie al vento: recensione del film di Aki Kaurismäki

Aki Kaurismäki torna al cinema con il quarto capitolo della sua serie sulla classe operaia. Foglie al vento, in sala dal 21 dicembre 2023 dopo il passaggio con premio al Festival di Cannes, è poesia malinconica, ingiustizie sociali e una bella storia d'amore

In lode di Aki Kaurismäki, che getta lo sguardo dove nessuno osa, che sta sempre dalla parte giusta, che si ricorda di una trilogia vecchia trent’anni e la resuscita senza cercare un improbabile lieto fine, tenendo fede alla lezione di Chaplin. Niente rabbia autoindulgente, ma poesia malinconica e rispettosa adesione alla filosofia di vita, ai tormenti, dei suoi protagonisti. Soprattutto, lode al regista che comprende le virtù della concisione. Perché il suo nuovo, meraviglioso, Foglie al vento – vincitore del premio della Giuria al Festival di Cannes 2023 e in sala dal 21 dicembre 2023 per Lucky Red – dura la bellezza di ottantuno minuti. La vita (proletaria) in un’ora e venti, parafrasando Godard in una delle sue più celebri esternazioni cinefile.

Foglie al vento cinematographe.it recensione

Foglie al vento è il quarto vertice di una trilogia su e per la classe operaia. Era cominciata con Ombre nel paradiso nel 1986, proseguita con Ariel nel 1988 e terminata nel 1990, così pareva all’epoca, con La fiammiferaia, che è anche uno dei suoi film più famosi. E invece, trentatré anni dopo, protagonisti Alma Pöysti e Jussi Vatanen, gli è venuta voglia di tornare sul luogo del delitto. Sociale, economico, spirituale.

Foglie al vento: un amore a ostacoli e una società ingiusta

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Ansa (Alma Pöysti) lavora al supermercato con un contratto a ore e quando il capo insensibile la licenzia, la guardia giurata che con la sua delazione l’ha messa nei guai si giustifica alla maniera dei nazisti: eseguivo solo degli ordini. Ansa si occupa di sistemare la roba sugli scaffali e teoricamente dovrebbe ricordarsi di buttarla, quando passa la data di scadenza, ma non è sempre ligia al dovere. Se c’è qualcuno che ha bisogno, gli regala i cosiddetti scarti, qualche volta ne prende anche per sé, d’altronde hanno ancora qualcosa da offrire e la paga è una miseria. Ansa abita un mondo che non sa fare di meglio che produrre cibo in serie, senza una scintilla di originalità. Che accumula cose, solo per il piacere di disfarsene. La classe operaia, ci ricorda Aki Kaurismäki, ha passato già da un bel po’ la data di scadenza, almeno a sentire l’alienante e disumana società capitalista. Un tempo li chiamavano proletari, sono i nuovi scarti.

Poi c’è Holappa (Jussi Vatanen). Lavora in un cantiere, beve e fuma troppo. Un giorno si ferisce a un braccio a causa di un’attrezzatura difettosa e il datore di lavoro, che ha la coscienza sporca perché avrebbe dovuto fare manutenzione ma per risparmiare se ne è ben guardato, lo licenzia adducendo le negligenze e l’imprevedibilità di un comportamento influenzato dall’alcol. Fino a quel momento la cosa non l’aveva disturbato. Holappa ama bere, beve perché è depresso ed è depresso perché beve. La sua è una rabbia muta e malinconica, non scevra di zone d’ombra ma al tempo stesso dignitosissima. Una sera esce con un amico e al karaoke incontra Ansa. Amore a prima vista.

Non è così semplice. Si trovano subito, ma solo per perdersi un attimo dopo. Foglie al vento è la storia dell’accidentato amore tra Ansa e Holappa, prigionieri delle circostanze, delle proprie mancanze (soprattutto i problemi alcolici di lui) e di una società che fabbrica scarti in serie e non sa che farsene dei bisogni e delle aspirazioni di due persone normali, integre, originali. Ansa e Holappa sono circondati. Lei vive nei sobborghi di Helsinki, lontana dal centro spersonalizzato e capitalista, in una casetta modesta che ha mantenuto una certa personalità. Ogni volta che accende la radio c’è qualche brutta notizia sulla guerra in Ucraina, che è lì a due passi. Spegne subito per proteggersi. Due cose la tirano su: il cinema e l’amore. È la sua ricetta, è la ricetta di Aki Kaurismäki.

Poesia e tristezza, rabbia e un finale chapliniano

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Che ci sia o meno un paradiso, per la classe operaia – il gioco di parole lo troverete più o meno in tutte le recensioni – è un dubbio che Foglie al vento non intende sciogliere, perché la questione riguarda il momento in cui le luci si accendono e il film finisce; riservata alla coscienza dello spettatore. Quello che a Aki Kaurismäki preme sottolineare è che non c’è speranza di emancipazione, in attesa per i protagonisti, finché la vita scorre. La classe operaia è sconfitta nel grande gioco dell’accumulazione e del profitto, ma non umiliata. In questo senso la rabbia del film, ce n’è tanta, non sfuma mai in un rigurgito nichilista e compiacente. Il regista finlandese non sa che farsene dell’indignazione da salotto, non nasconde a sé e a noi che una vita materiale soddisfacente, Ansa e Holappa non l’avranno mai.

Riesce comunque a fare spazio alla speranza. Le riserva l’utopia malinconica di un tramonto chapliniano – perdonerà il club dello spoiler l’anticipazione di una parte del finale – lo slancio vitale di un uomo e una donna che si amano e vanno avanti nonostante tutto, forti della loro originalità e brillantezza. Non c’è una data di scadenza per questo. La poesia di Foglie al vento è triste ma non ripiegata sulla sua disperazione. C’è un filo sottile d’umorismo che copre tutto, la cattiveria del mondo e la personalità dei suoi protagonisti. È questo sguardo largo, che abbraccia la risata e la malinconia, il cinema di ieri e quello di oggi, l’empatia e l’equilibrio nei giudizi, la rabbia e l’eleganza, la forza del cinema di Aki Kaurismäki. Che non cambia, perché ha giù tutto quello che serve per colpire.

Foglie al vento: conclusione valutazione

Guai se cambiasse, Aki Kaurismäki. È una delle poche coscienze autoriali rimaste. La mappa dei temi e le peculiarità della messa in scena ce lo spiegano bene. Foglie al vento ha tutto, l’attenzione ai cosiddetti perdenti, l’intimità sposata all’analisi sociale, buona musica e un’orgia cinefila; si parte da Chaplin per arrivare a Jarmusch, David Lean, Godard, Bresson e Luchino Visconti. Il rigore insieme ascetico e creativo dell’immagine, l’attitudine minimalista dei bravissimi protagonisti, quel velo di tristezza negli occhi e un’innata simpatia. La leggerezza poetica di una storia che sa dialogare con la malinconia e la giusta rabbia. Tutte cose che servono a illuminare le virtù del film e la potenza dell’arte del suo regista. Un dinamitardo gentile, sempre con le migliori intenzioni.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5