Final Destination Bloodlines: recensione del sesto capitolo del franchise

La morte è tornata, e ha più fame che mai. Final Destination Bloodlines, il sesto capitolo dell'iconico franchise horror, arriva nelle sale italiane (con qualche novità) il 15 maggio 2025.

La forza di un film è – anche, non solo – la sua premessa. Il cinema non è matematica, ma non va presa alla leggera la massima per cui, più è facile isolare, di una storia, trama, caratteri e tema di fondo – in cinque righe o cinque minuti – più è facile catturare l’attenzione dello spettatore. Non esiste, nel panorama dell’horror moderno – non contemporaneo, moderno, dal 2000 a oggi – una premessa più convincente. Mancava da tempo, era il 2011, ma con Final Destination Bloodlines è di nuovo tra noi la saga più esistenzialista e sanguinolenta di tutte. Regia di Zach Lipovsky e Adam Stein, con Kaitlyn Santa Juana, Tony Todd, Richard Harmon, Brec Bassinger, nelle sale italiane arriva il 15 maggio 2025 per Warner Bros. Pictures Italia. È il sesto capitolo di un iconico franchise horror e ci ha messo un po’ a tornare, proprio per la sua formula di successo. È una formula scrupolosa, abbastanza originale, di una semplicità che rasenta la purezza; è un grosso pregio, ma anche una trappola.

Innovarla è difficile e, andando avanti con il tempo, si corre il rischio di diventare ripetitivi. Per scansare il rischio, gli sceneggiatori Guy Busick e Lori Evans Taylor – su soggetto firmato anche da Jon Watts – hanno rimescolato le carte senza tradire l’assunto, insaporendo la struttura narrativa e aumentando la posta in gioco (emotiva). Sarà tutto più chiaro andando avanti, ma ora va ricordata la premessa. Per quanto il sesto film provi a ricalcolare i termini dell’equazione, il succo del discorso resta: tu provi a fregare la morte, la morte frega te. Potrebbe anche trattarsi della più sbrigativa premessa della storia del cinema.

Final Destination Bloodlines: è una (mortale) questione di famiglia

Final Destination Bloodlines; cinematographe.it

Comincia, Final Destination Bloodlines, con un sogno dentro un sogno o, per essere più precisi, una premonizione dentro un sogno. Il sogno, ricorrente, appartiene a Stefani (Kaitlyn Santa Juana), e ha a che fare con un grattacielo e un terribile incidente, alla fine degli anni Sessanta. Protagonista del sogno è una giovane donna, nomen omen Iris (Brec Bassinger), che vede se stessa e tutti quelli con lei precipitare nel vuoto. Convinta della serietà della visione, Iris allerta i presenti e gli salva la vita. Il sogno turba la coscienza di Stefani, che nella giovane della premonizione riconosce la nonna Iris, sparita da anni; il resto della famiglia evita anche solo di parlarne. Stefani è cocciuta, vuole tornare a dormire la notte – il sogno non le dà tregua – e raggiunge la nonna per farsi spiegare cosa succede.

Oltre l’architettura di base e la famosa premessa che è sul serio la forza di un horror e un franchise cruenti, dal nero umorismo e dal sapore smaccatamente esistenzialista – il primo film è del 2000, il quinto e più vicino a noi, si è già detto, è del 2011 – l’idea di Final Destination Bloodlines è di omaggiare il format complicando la struttura. La domanda stavolta è: cosa succede se la premonizione non salva solo la vita a un gruppo incalcolabile di persone (è il minimo, per il franchise), ma dà anche vita a un nucleo familiare che, in teoria, non dovrebbe esistere?

Succede che la morte si rimbocca le maniche e comincia a cercare i Campbell/Reyes – la famiglia di Stefani – per farli fuori tutti, uno dopo l’altro. Iris e i suoi, nati per un cortocircuito del destino, sono pane per i denti della morte e del suo perverso senso di giustizia; in Final Destination Bloodlines, l’azione implacabile e invisibile della grande mietitrice è mossa da un bisogno di ordine, stabilità e (ri)equilibrio. L’alchimia messa in scena da Zach Lipovsky e Adam Stein è una struttura narrativa articolata, una connessione emotiva più complessa tra i personaggi, e leggi più stringenti a complicare il cammino della morte.

L’elemento di stabilità e continuità con il passato è doppio. Da un lato, il piacere perverso di Guy Busick e Lori Evans Taylor nell’immaginare, in calorosa offerta al pubblico, modi sempre più esagerati, sanguinosi e diabolicamente divertenti di azionare la morte. Dall’altro, il commovente cameo di William Bludworth (Tony Todd), personaggio ricorrente, guida spirituale e pratica del franchise. Tony Todd se ne è andato poco dopo la fine delle riprese, trasportando indirettamente il discorso del film dal piano della pura, innocente, perversa finzione, a una realtà più dolorosa.

Il franchise porta la morte in famiglia

Final Destination Bloodlines; cinematographe.it

È chiaro che il sesto film ce la mette tutta per gettare benzina (emotiva) sul fuoco del franchise. Con che esiti? A monte, oltre il consueto bagno di sangue e l’autoironia della premessa – un altro modo di spiegarla è: vivi abbastanza a lungo da raccontare di essere riuscito a fregare la morte – emerge una forte preoccupazione spirituale. Final Destination Bloodlines, portando avanti un discorso vecchio un quarto di secolo, è forse la più esistenzialista delle fantasie horror. L’invito sotterraneo, del sesto come dei primi cinque capitoli, è a non lasciarsi ingannare dall’illusione di scamparla ma di vivere la vita al massimo, lottando contro l’inevitabile per, infine, accettarlo. Non c’è dubbio, non c’è mai stato, sull’esito della più famigerata delle partite a scacchi. Quella in cui posta in gioco siamo, beh, noi.

Il filo rosso è la convinzione, la comprensibile illusione, che sia possibile trovare un modo di ingannare la morte. Forse si può, pensano i personaggi di Final Destination Bloodlines, stare fermi, immobili – in più di un senso – ma non è detto che funzioni. La ricerca di un modo per lasciare la giostra è funzionale a introdurre il discorso familiare, che nel sesto film è il cuore di tutto. Si lotta per salvare dalla morte quelli che sono nati e cresciuti accanto a te, una spinta emotiva ulteriore. Al di là della breve e carismatica incursione di Tony Todd, tutto è famiglia, qui. A ogni membro, un carattere e un’angolazione peculiare. Brec Bessinger/Iris è la classica protagonista, per come abbiamo imparato a capire il franchise – la ragazza con la premonizione – e una coscienza dolorosamente invecchiata, poi.  Kaitlyn Santa Juana/ Stefani è la voce del cuore e la lucidità. Richard Harmon/il cugino Erik, lo scetticismo incarnato e una dose di sana autoironia.

L’idea di costringere la morte a scavare nell’albero genealogico dei Campbell per portare a termine il suo sporco lavoro aiuta nell’immediato il franchise a recuperare slancio, per fronteggiare la ripetitività di una formula paradossalmente limitata dalla sua efficacia, molto poco migliorabile. Nel lungo periodo, appesantisce la meccanica del film, perché circoscrive in maniera più schematica e rigida il cammino della morte. La rigidità narrativa è compensata dal piacere definitivo di Final Destination Bloodlines, che è lo stesso dei cinque capitoli precedenti: nelle piccole e nelle grandi cose, con sommo orrore e un bel po’ di divertimento, esorcizzare la paura dell’inevitabile escogitando modi sempre più violenti, sanguinosi, esagerati, di morire. La creatività del film, sotto questo aspetto, assolutamente non spoilerabile, non fa difetto. Serviranno tante buone idee, però, per mantenere in vita (!) il franchise.

Final Destination Bloodlines: valutazione e conclusione

Final Destination Bloodlines; cinematographe.it

Il problema di Final Destination Bloodlines è meno incalzante di quello dei personaggi, ma non meno importante: trovare nuovi modi di raccontare la solita, vecchia e violentissima storia. Il film ci prova, stavolta, cercando l’equilibrio tra il vecchio – la morte, presenza invisibile ma che sa farsi sentire, quando entra in azione – e il nuovo, o relativamente nuovo – lavorare sul rapporto tra passato e presente, legare i personaggi in maniera più viscerale – senza dimenticare che, esistenzialismo della premessa a parte, la ragione del duraturo successo del franchise è più sanguinosa e primordiale: la grande creatività con cui la morte salda i conti con i malcapitati che provano a sfuggirle. Final Destination Bloodlines è un film che costruisce la sua stabilità mixando il vecchio e il nuovo; coerentemente, il risultato finale è a metà strada. Un pizzico di freschezza che non basta, una meccanica narrativa più rigida, ma la chiarezza della formula e l’umorismo nerissimo della storia restando – fortunatamente – ben saldi.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

2.6