Roma FF16 – Farha: recensione del film di Darin J. Sallam

La pellicola, in concorso al Toronto Film Festival e al Busan International Film Festival, è nella selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2021. Un racconto di guerra toccante con un'idea di fondo trascinante, ma poco efficace.

Farha è la nuova pellicola di Darin J. Sallam, regista e sceneggiatrice originaria della Giordania, che ha già portato sul grande schermo Still Alive (2010), The Dark Outside (2012) e The Parrot (2016), lungometraggi pluripremiati. Quest’ultima fatica dell’autrice è stata presentata prima al Toronto International Film Festival e al Busan International Film Festival portando un racconto davvero intenso: la storia di una 14enne che nel 1948, in Palestina, va incontro direttamente alla guerra e ne rimane segnata a vita. In particolare, il lungometraggio si avvale di una particolare soluzione registica e narrativa che, per quanto possa apparire inizialmente funzionante, va a minare l’intero progetto per buona parte della sezione centrale.

Farha fa parte della selezione ufficiale della 16esima Festa del Cinema di Roma. Non sappiamo ancora se la realizzazione incontrerà le sale italiane, ma ci auguriamo che ciò possa accadere nei prossimi mesi, nonostante si tratta di fatto di un progetto di nicchia. Scopriamo come mai l’idea di fondo della pellicola, per quanto possa essere innovativa, è stata sfruttata non ottimamente in sede di sceneggiatura e regia.

Farha: un racconto di guerra originale

Farha

Farha si apre in maniera placida e gioiosa con una ragazzina palestinese di 14 anni, Farha (Karam Taher) che nel 1948 tenta a tutti i costi l’emancipazione, cercando più volte di convincere il padre (Ashraf Barhom), il sindaco del piccolo paese dove vive, a mandarla a studiare in città perché è assetata di conoscenza e cultura. Nel momento in cui il padre decide finalmente di accettare, purtroppo scoppia la guerra e il caos dilaga. Per proteggere la figlia, l’uomo sceglie di nasconderla all’interno di una cantina e di murarla all’esterno così da proteggerla, promettendole di recuperarla una volta che la situazione fosse tornata normale.

In tutta la prima parte del film, la sceneggiatura è ben bilanciata e se da un lato ci mostra gli usi e costumi della Palestina in modo naturale e per nulla cervellotico, sviluppa in parallelo anche il tema portante della realizzazione ovvero la guerra e la devastazione che essa provoca, separando famiglie, intere paesi e seminando distruzione tra etnie. Il tutto funziona egregiamente e l’aspetto più interessante è che l’elemento bellico rimane sullo sfondo, con la storia che sembra suggerire un’apparente calma prima della tempesta. Avvertiamo, infatti, che qualcosa sta per succedere e gli indizi forniti dal copione rendono bene l’idea, dando avvisi di un conflitto imminente che sta per abbattersi sul piccolo paese.

A livello registico, siamo scaldati da inquadrature ricche e colorate che ci presentano il piccolo luogo in tutte le sue componenti. Abbiamo inoltre modo di conoscere perfettamente i personaggi di Farha, introdotti in maniera perfetta, con anche una caratterizzazione a supporto che gli dà man forte. Anche negli ultimi momenti dinamici del film, quando effettivamente la guerra arriva alle porte, la macchina da presa riesce a rappresentare la tensione con pochi e semplici dettagli che riescono a suggerire il pericolo senza però fare uso di scene su schermo particolarmente cariche. Da questo momento in poi, il registro filmico e narrativo cambia del tutto e lo spettatore per qualche minuto si trova stordito, ma al tempo stesso affascinato dalla soluzione proposta.

Farha, da questo momento in poi, mostra la protagonista rinchiusa nella cantina della sua casa, completamente al buio, con pochi viveri e una paura che la attanaglia ad ogni instante. Il senso di soffocamento e claustrofobia è molto forte ed è avvertito dagli spettatori in modo diretto, senza nessun elemento a stemperare la situazione. Il problema maggiore, però, è che di fatto questa soluzione viene poi adottata per l’intera durata del film ma non sempre con risultati eccellenti. L’idea di fondo è sicuramente mirabile, ma non è gestita purtroppo in maniera efficiente e, soprattutto, funzionale per un racconto filmico e ciò ne va inevitabilmente a toccare anche il ritmo.

Farha: soffocamento e oppressione fin troppo abusati

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Ma andiamo nel dettaglio: lo sguardo è volutamente confuso, caotico, non si hanno punti di riferimento ed effettivamente i minuti sembrano interminabili. Se questo fatto è perfetto dal punto di vista empatico con lo spettatore non è però calibrato e tarato con gli strumenti adeguati. Nei momenti più tediosi e compassati, non vi è nessuna rivelazione, abbiamo poche informazioni, pochi movimenti di macchina e gesti della protagonista. Nel complesso abbiamo una staticità di fondo che risulta essere fine a sé stessa, con qualche piccolo sprazzo che ci fa intuire che c’è, al di fuori di questo luogo, una guerra in corso, ma oltre a ciò, per una buona durata della realizzazione, non vi è nulla ed è tutto fin troppo piatto e lineare.

Ciò va anche ad intaccare il ritmo che inizialmente si era profilato: Farha interrompe un andamento normale e rallenta, ma lo fa, però, per parecchi minuti senza nessun cambio o picco, in grado forse di smuovere un po’ una situazione fin troppo dilatata. Solo dopo tanto tempo, finalmente, si ha un piccolo recupero (ovviamente non vi diremo come), ma purtroppo, per quanto mette nuovamente il film sui binari giusti, non riesce comunque a rimediare al vuoto registico e narrativo che è stato perseguito. Tranne qualche piccola scena realmente impattante, il lungometraggio non recupera più e si chiude con una sequenza finale che, per quanto può apparire poetica, è fin troppo tirata improvvisamente e senza alcun criterio logico.

D’altro canto, per quanto Farha cada in questo vortice negativo, la forza del personaggio principale è innegabile e lascia al pubblico un messaggio di speranza in un oceano di disperazione e dolore causato dalla guerra. Una figura femminile davvero carismatica, per certi versi originale, che ha da parte sua una buona interpretazione di Karam Taher che, nonostante la giovane età, ha dimostrato una maturità recitativa per nulla scontata e ha contribuito attivamente alla costruzione di un personaggio realmente importante. Anche gli altri personaggi, anche se appaiono poco, sono un ottimo contorno alla storia e forniscono i giusti strumenti per l’evoluzione della protagonista anche quando non sono presenti su schermo.

Farha è la classica occasione mancata: la pellicola scritta e diretta da Darin J. Sallam, infatti, per quanto sulla carta si pone come un racconto alternativo sulla guerra, a conti fatti non riesce realmente a lasciare un’impronta significativa negli spettatori. Non basta una soluzione registica e narrativa utilizzata in modo inusuale per rendere un lungometraggio contenutisticamente valido. Detto questo, c’è anche da dire che la protagonista è molto intensa e dà voce da un personaggio forte e realmente libero con una storia di fondo che funziona in generale, ma che forse avrebbe richiesto una maggiore spinta per portare a casa un risultato davvero soddisfacente.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

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