Dossier 137: recensione del film da Cannes 78
Il film di Dominik Moll presentato in concorso alla 78ª edizione del Festival di Cannes è un thriller procedurale, quasi documentario, in cui ci si interroga non solo su cosa sia la giustizia, ma su quanto e come lo Stato sia davvero in grado di attuarla.
La 78ª edizione del Festival di Cannes non nasconde la sua veste politica, ma anzi la urla a gran voce, e Dossier 137 del regista franco-tedesco Dominik Moll, presentato all’interno del concorso principale, sembra essere la quota più lucida e dichiarata in tal senso. Dopo essere stato due volte in gara al festival (nel 2000 con Harry, un amico vero e nel 2005 con Due volte lei) e dopo aver conquistato pubblico e critica con La Nuit du 12, premiato con sei César, Moll è tornato sulla Croisette con un’indagine serrata tra i silenzi della burocrazia e le fratture morali delle istituzioni. L’opera scava nel cuore oscuro dell’apparato statale francese, mettendo sotto la lente d’ingrandimento l’IGPN – l’organo interno che sorveglia la condotta della polizia nazionale – e gli scontri avvenuti nel 2018 durante il celebre movimento dei gilet gialli.
A guidare il cast, una rigorosa e intensa Léa Drucker (Jusqu’à la garde), nei panni dell’ispettrice Stéphanie Bertrand alle prese con un’inchiesta scomoda e personale. Al suo fianco, Jonathan Turnbull (L’Innocent), Mathilde Roehrich (La Dernière Vie de Simon), Guslagie Malanda (Saint Omer) e Stanislas Merhar (Nettoyage à sec), affiancati da giovani interpreti come Valentin Campagne (La Guerre des Lulus) e Solàn Machado-Graner (L’Île rouge). La sceneggiatura è firmata dallo stesso Moll insieme a Gilles Marchand (Qui a tué Bambi ?), collaboratore storico del regista. La fotografia è affidata a Patrick Ghiringhelli (Only the Animals), mentre la produzione è curata da Haut et Court in collaborazione con France 2 Cinéma.
La finzione che documenta il reale

Stéphanie è ispettore dell’IGPN, qui incaricata di verificare la condotta della polizia durante la manifestazione dei Gilet Gialli del 2018, degenerata in atti di violenza inaudita. Il ferimento quasi mortale di un giovane, proveniente dalla stessa cittadina d’origine della protagonista, dà il là alle indagini, che per tutto il film si protraggono contrapponendo la ricerca di giustizia e verità – operata dall’ispettrice e dalla sua squadra – alla condotta smisurata di uno specifico gruppo di agenti e all’omertà dell’intero corpo di polizia. Il caso è alquanto delicato e molto complesso da esaminare; tra verbali, interrogatori e silenzi che pesano più delle parole, Stéphanie tenta di raccapezzarsi, mossa da un’intaccabile rettitudine morale – oltre che da un sentimento di vicinanza – spingendosi oltre i propri doveri e andando a scandagliare ogni possibile testimonianza e ogni possibile prova, con un occhio particolarmente attento a tutte le riprese video reperite.
Dossier 137 è un thriller procedurale, quasi documentario, in cui ci si interroga non solo su cosa sia la giustizia, ma su quanto e come lo Stato sia davvero in grado di attuarla. La verità, pur perseguita con determinazione, si scontra con la convenienza politica e con le logiche della sopravvivenza istituzionale. Moll scava in profondità, facendo emergere il peso di una macchina che tende più a proteggersi che a emendarsi. La frase rivolta a Stéphanie dalla madre del giovane ferito – “Hai fatto bene il tuo lavoro, ma a che serve?” – sintetizza la frustrazione di un sistema che si interroga troppo tardi sulla propria colpa e che sembra pronto a negarla ogni volta che la verità rischia di farne sgretolare le fondamenta. Eppure, la protagonista resiste: è stoica, misurata, attraversa il dolore e la delusione senza cedere. In un ambiente che tenta di tarparle ogni mossa, lei va avanti, non per fede cieca nella giustizia, ma per una forma profonda di coerenza personale.
Dossier 137: valutazione e conclusione

Dossier 137 non è un film dalla tecnica indimenticabile e nemmeno sembra volerlo essere. La regia è sobria, priva di virtuosismi, la fotografia funzionale, il montaggio lineare. Ma tutto questo passa rapidamente in secondo piano di fronte alla solidità dell’approccio, alla precisione dello stile e alla densità della scrittura. Moll e Marchand confezionano un’opera che, pur nella sua finzione, documenta la realtà. Anatomizzano il caso con lo stesso rigore e la stessa lucidità analitica che abbiamo imparato ad associare al cinema di Justine Triet (Anatomia di una caduta): ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni omissione viene scomposta, osservata, interrogata. L’approccio è marcatamente documentaristico, rifiuta l’artificio, si tiene alla larga da qualsiasi drammatizzazione superflua: il racconto procede lasciando che siano gli sguardi, le esitazioni, i dettagli minimi a svelare una verità sfuggente. Nulla è spettacolare e proprio per questo ogni scena è tesa, permeata di quella costante sensazione di conflitto tra individuo e sistema. Moll e Marchand si confermano una coppia autoriale di grande talento, una coppia da festival, capace di affrontare questioni complesse senza retorica. Un’opera rigorosa, che lascia addosso il peso delle domande giuste e la consapevolezza che, in certi contesti, la verità ha bisogno di protezione.
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