Control: recensione del film cult di Anton Corbijn al cinema in versione restaurata

Torna al cinema in una splendida versione restaurata il primo lungometraggio del fotografo e videomaker Anton Corbijn, risalente al 2007 e dedicato al genio tormentato di Ian Curtis.

In una località vicino a Manchester, a metà degli Anni Settanta, Ian Curtis e altri tre bad boys della zona uniscono le forze per fondare i Joy Division, gruppo post-punk dalle liriche tanto lugubri quanto ipnotiche che riflettono sulla caducità dell’amore e della vita. Control, primo lungometraggio del fotografo Anton Corbijn, segue il frontman Ian Curtis, bellezza angelica e animo assediato dai fantasmi, dagli anni della scuola, per la quale è molto dotato, alla prima giovinezza in cui, troppo presto, sceglie di sposare Debbie, la ragazza dell’amico, e di abbandonare gli studi per dedicarsi alla musica e alla scrittura.

Control, un giovane uomo diviso dalla malattia e in bilico tra due amori

La biografia di Ian Curtis, scritta dalla vedova Deborah, sposata appena diciottenne, è una delle principali fonti del film

Malato di epilessia, disturbo che lo coglie spaventosamente sempre nei momenti più inattesi, e diviso tra l’affetto coniugale e la passione ‘elettiva’ per una giornalista belga, Ian perde il ‘controllo’ su se stesso e la sua esistenza fino a scegliere di rinunciare alla comprensione del dolore e, così, di uccidersi ad appena ventitré anni. Il controllo a cui il titolo fa riferimento è, dunque, qualcosa che Ian perde su tutto ciò che lo riguarda: il suo corpo, la sua mente, il suo tempo, il suo doppio amore. La musica, però, resiste al caos e si fa scrigno non solo di tormenti, ma anche della loro sublimazione, di un incanto che, se non guarisce, almeno restituisce senso all’insensato.

Control: in versione restaurata nelle sale un film culto del 2007

Ian Curtis e la sua ‘amante’ belga Annik Honoré sono interpretati da Sam Riley e Alexandra Maria Lara, conosciutisi sul set e divenuti marito e moglie nella vita

Costruito, con estremo gusto, accostando ‘tableaux vivants’ in un rigoroso ed elegantissimo bianco e nero, Control riflette la formazione del suo regista, fotografo prima che cineasta. La vita di Ian Curtis, interpretato da Sam Riley, si dipana sullo schermo per affastellamento di quadri, di istantanee che cristallizzano tratti d’esistenza, distillati di un flusso in verità rapinoso che, nel traghettamento filmico, si fa composto, arginato da un’estetica esigente e disciplinante. La natura malinconica, avvezza al baratro ma nondimeno soffocata dalla malattia sempre incombente, del protagonista, vera e propria icona musicale dei Settanta nonché tra i più alti interpreti del male di vivere, emerge grazie al controllo sulla materia che Anton Corbijn mostra di possedere, all’equilibrio e alla compostezza con cui affronta, sempre per sottrazione, il mistero doloroso di un progressivo, paradossale e per nulla risolto spegnersi della vita nel pieno della vita.

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Ian Curtis: vita brevis di un genio della musica e della scrittura

Ian Curtis visse e suicidò al numero 77 di Barton Street di Macclesfield, città dove è sepolto

Così, come per Ian Curtis, anche per Corbijn il ‘controllo’ diviene strumento inapplicabile all’esistenza ma necessario all’arte, spazio in cui le incongruenze e i tumulti vitali trovano un loro ordine. La misura e la sobrietà con cui il regista ricostruisce lo strazio interiore di Ian Curtis, evitando accuratamente di assumere uno sguardo aneddotico o pruriginoso né tantomeno commiserando, raffredda l’emotività, ma non tradisce l’elemento essenziale di un carattere in qualche modo ‘superiore’, che ha cercato in stilemi poetici affatto retorici o auto-assolutori strumenti per elevare la sofferenza individuale a destino comune agli uomini.

Come in una delle sue canzoni più amate – e qui il controllo vi fa ritorno, già dal titolo, She’s Lost Control – dedicata a una conoscente affetta dal suo stesso male, anche Ian Curtis cammina sul “confine senza ritorno”, ma, nell’attraversare il limbo tra vita e morte, non si sbilancia mai del tutto verso l’una o verso l’altra (“And she expressed herself in many different ways / Until she lost control again / And walked upon the edge of no escape”). Anton Corbijn, non senza qualche eccesso manieristico, fa, dunque, bene il suo lavoro: raccontare non tanto una vita accidentata quanto il modo, intellettualmente ed emotivamente assai raffinato, di un uomo e di artista di far fronte ai suoi molteplici accidenti. La morte resta, com’è giusto, fuori campo.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 5
Recitazione - 4
Sonoro - 5
Emozione - 4

4.3