Come Closer: recensione del film di Tom Nesher

Un film vibrante, un viaggio tra lutto, identità e colori al neon.

Come Closer è un fascio di nervi al neon. Luci e ombre. Vita che fa a botte con la tragedia. La perdita e la perdizione, la vertigine di amare, l’energia di sapersi vivi. Una ferita aperta dentro la quale urlare tutto il piacere irrisolto, dentro la quale rimuginare pensieri e tentare di trovare un senso: indefinito, flebile, inesistente, ma la vita c’è sempre e scorre proprio lì, accanto alla mancanza determinata dalla morte.

Il lungometraggio d’esordio della giovane regista israeliana Tom Nesher, vincitore del Viewpoints Award al Tribeca Film Festival 2024 e al cinema dal 28 agosto 2025 con Fandango, prende le mosse da un dramma personale per trasmigrare sul grande schermo una narrazione che rifugge dal pietismo e dall’attribuzione della colpa per riversarsi esclusivamente nella rimodulazione del dolore. Cosa resta a chi resta? La giovane protagonista del film, la ventenne Eden interpretata dall’esordiente e talentuosa Lia Elalouf, non se lo chiede ma, semplicemente, lo vive.

Come Closer: dolore, identità e adolescenza nel film d’esordio di Tom Nesher

Come closer recensione cinematographe.it

Il film, sceneggiato dalla regista e scritto all’indomani della morte del fratello, precipita in domande ossessionanti e porta la protagonista in un circolo vizioso di estremismi tesi a evitare quel vuoto lasciato dalla perdita. Eden si sottopone a penitenza: si infiamma la lingua, si cicca sulle braccia, lascia che il suo corpo sia oggetto di piacere per sconosciuti, si lascia stordire dalla musica, dalla sala da ballo, dalle luci psichedeliche, dall’alcol. Indossa tutti gli abiti del fratello fino a mutare il corpo, fino a rinvenire il segreto che non si aspettava di trovare: la presenza di Maya (Darya Rosenn) nella vita del suo amato Nati (Ido Tako). Perché non ne sapeva nulla? Perché lui gliel’ha nascosta?

È in questo frangente che il dolore solitario muta in una spasmodica ricerca di condivisione: l’incontro tra Eden e Maya è sospetto, curiosità, libido. Un rapporto da leggere senza etichette, come la gen Z insegna, in cui i confini sono labili e l’unica risposta che possiamo sperare di avere è un mix complicato di domande e percezioni, di volontà di trovare un senso, ma senza accanimento alcuno. Ponendo accanto due figure femminili così disparate – che le attrici esordienti interpretano impeccabilmente, enendoci in bilico tra sentimenti opposti – Tom Nesher lascia emergere lo scarto, la sfida e la complessità dell’esistenza. Maya ed Eden si fanno reciprocamente terreno fertile, specchio magico nel quale rinvenire l’essenza di Nati e non c’è sortilegio né religione sul fondo dei loro cuori, mentre tentano di scardinare i confini di quei piccoli segreti che il ragazzo aveva riservato per la sorella e la fidanzata.
Così, nei frangenti in cui tutto sarebbe perfetto affinché accada qualcosa di surreale, la sceneggiatura prontamente fa crollare tutto in una risata ironica e l’anima ritorna alla carne, a ciò che si può ancora sentire, toccare, vedere, percepire con tutte e cinque i sensi: le due ragazze si toccano, si baciano, fanno l’amore, sognano la fuga, sfiorano la morte.

Una regia euforica e una colonna sonora deliziosamente assordante

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La regia dinamica ci getta fin dal principio in una strada scoscesa di pulsioni, euforia, scherzi e risate, abilmente modulate da una musica frizzante, caotica, a tratti blasfema. La soundtrack di Ginevra Nervi (in cui converge il lavoro del sound design Ronen Nagel MPSE e il mix di Francesco Cucinelli) stordisce e lenisce, sovrasta le immagini, i pensieri, il dolore, invade ogni immagine, ogni lacrima, ogni pazzia. Stare a guardare Come Closer, allora, è un po’ come sbirciare dentro la camera di una teenager e scorgere, nel dolore, una rielaborazione del lutto che è incipit di una nuova fase di vita, di una ricerca d’identità naturalmente obbligata, ma che qui diviene inevitabile.

La fotografia di Shai Peleg intrappola tutto il glamour scintillante di un film che mira ad accentuare al massimo i colori attraverso espedienti visivi precisi e perenni che si diramano a partire dalla figura stessa di Eden. Il personaggio interpretato da Lia Elalouf, con i capelli rossi, il trucco colorato (i costumi sono di Gabrielle Orion Hasson e Tamar Eyal, il make-up di Karen Hassaf), le catenine ai polsi e i vestiti sgargianti monopolizza l’attenzione visiva, lanciando scie che vanno ad amalgamarsi alle luci al neon, ai colori caldi, vissuti e accoglienti di Tel Aviv.
La videocamera si incolla ai corpi, respira a malapena per farci scorgere le strade, i parchi, le case e le spiagge e poi torna lì, addosso alle espressioni, ai volti, al silenzio, al pianto, alla rabbia, alla bellezza di essere vivi.

Come Closer: valutazione e conclusione

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Come Closer è un film tracotante, acqua fresca che fuoriesce dai bordi con spasmodica energia. Tom Nesher non sa esattamente cosa deve narrare ma ha ben chiara la ragione per cui lo sta facendo: rielaborare il lutto, trovare un senso all’esistenza che sappia andare oltre la fine della stessa; imparare a convivere con un’essenza che non è più presenza fisica senza rinunciare a crescere, a diventare adulti.

La mutazione di Eden, che scorgiamo appena nel finale e che viene resa impeccabile dalla febbrile interpretazione di Lia Elalouf, resta sospesa, in evoluzione. Percepiamo che ciò che viene raccontato non è che un pulviscolo sospeso nel grande marasma di una vita in perenne evoluzione. Non una risposta, non un manifesto su come reagire alle tragedie dell’esistenza, bensì una reazione spontanea al dolore che sul grande schermo diviene arte; affresco del caos adolescenziale con tutto il carico di incomprensioni, piaceri, scontri generazionali.

Come Closer non è un film perfetto ma di effetto. Un inno all’esistenza sbilenca, un’effusione di musica e colori che giustifica l’imperfezione e che no, non ci abbraccia né capisce, perché Tom Nesher non fa altro che mettere a disposizione il suo vuoto, ci scava dentro insieme a noi imbellettandolo di lustrini e poi ci chiede un abbraccio, solo uno, che sia anche senza genere, senza etichette, senza senso, purché non faccia domande e si lasci stordire dal rumore del mondo, cosicché l’anima possa fingere che vada ancora tutto bene.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 3

3.4