Chiara Lubich – l’amore vince su tutto: recensione del film con Cristiana Capotondi

Il nuovo biopic di Rai1 racconta le vicende di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. Le vicende si concentrano sull'epifania della giovane trentina, che negli anni della seconda guerra mondiale cercò nelle parole del Vangelo la forza per aiutare i più bisognosi. 

Un nuovo anno, con Chiara Lubich. La fondatrice del Movimento Cattolico dei Focolari è la prescelta di Rai 1 per l’inizio del 2021. Una programmazione in prima serata che non cela precise ambizioni sociali. Dunque, la Lubich come lanterna per i difficili tempi che stiamo attraversando. Un simbolo laico, corre ai ripari la produzione, in netta contrapposizione però a quello che Chiara Lubich – l’amore vince su tutto davvero è: un biopic affidato all’iconografia più semplice e ridondante.

Come ogni agiografia, anche il film di Giacomo Campiotti si concentra sull’aspetto umano della (quasi) beata. Siamo nei primi anni della guerra, e sotto i bombardamenti di Trento una maestra delle elementari sente la chiamata di Gesù. La vita di Chiara cambia così, portando l’intera città ad abbandonare ipocrisie ed egoismi. I buoni sentimenti, ma anche la difficoltà di applicarli, sono al centro di una figura in forte contrapposizione con le regole sociali del suo tempo. Nel ruolo della Lubich troviamo Cristiana Capotondi, coi cui occhi il film apre le vicende, segnalando allo spettatore che quanto vedrà lo riguarda. Il film è in verità anche un racconto corale, che vede Chiara come leader di un gruppo di giovani a loro modo rivoluzionarie. In questo, nonostante una sceneggiatura di difficile appeal per il pubblico coetaneo alle protagoniste, Chiara Lubich- l’amore vince su tutto riesce a comunicare con il presente, grazie a momenti di autodeterminazione femminile, in netto contrasto con lo status quo, patriarcale e reazionario. Il racconto però tende alla ricostituzione di un ordine precostituito, con le amiche che abbandonano i promessi sposi (per altro fascisti) per tornarci poco dopo la guerra, e in cui solo Chiara Lubich si rivela reale outsider di un nuovo mondo.

Chiara Lubich l'amore vince su tutto cinematographe.it

Il film si apre a Città del Vaticano, nel 1950. Una donna siede di fronte a 5 cardinali; uomini della legge di Dio, pronti a giudicarla. Ma lei è Chiara Lubich, e della formalità della Chiesa non ha paura. Anzi, in questo Biopic RaiFiction si contrappone proprio l’istituzione togata alla cristianità più libera. Molte d’altronde sono le divise che entrano in scena, ospitate in virtù dei tempi mostrati ma suggerite come simboli di un irrigidimento morale che allontana dai più bisognosi. Ci sono i tedeschi che pattugliano le vie di Trento, i gerarchi fascisti, uno in particolar modo interpretato da Roberto Citran funge da opponente delle vicende, e poi i preti approfittatori, preoccupati per un vangelo in mano a una giovane. “Leggere da sola il vangelo? Mi sembra imprudente”. Tra di loro però anche Chiara Lubich, che si sveste di ogni avere, una San Francesco per tempi di guerra.

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La regia di Campiotti tiene a mostrare il percorso della Lubich verso una più elevata visione della realtà. Le scarpe consegnate alla bisognosa, i vestiti lasciati al vento, o una danza liberatrice. Cristiana Capotondi è buona nell’idea: delicata nei movimenti, scatena con gli occhi la tempesta pratica della Lubich. A ogni problema una soluzione, e subito. Ma è qui che Chiara Lubich – l’amore vince su tutto tradisce, in un piano di stile e immagini, gli intenti religiosi che in seduta stampa definisce laici. I simboli a cui si torna sono pedanti e suggeriti su ogni livello. L’inquadratura di una lacrima sulle pagine del vangelo è un masso che cala sul film. Alla scena, come a molte altre, si aggiunge un rafforzativo che disperde il senso dell’immagine, forse per paura di non essere abbastanza fedeli alla fede di Chiara Lubich. O a quella di certi spettatori. Eppure in sceneggiatura, e quindi nelle parole della Lubich, si condanna proprio la rincorsa al simbolo più esasperato. Quindi Dio è in Chiesa, ma anche nel respiro dei monti, si suggerisce. Nonostante quest’ideale (questo sì, laico) uno zoom avvicina al televisore dello spettatore la Madonna, cui si alterna la Lubich, e poi un dettaglio de la “Critica alla ragion Pura” ci mostra il Vangelo coprire l’opera di Kant. Immagini che tolgono il respiro ai tentativi di una discreta sceneggiatura, comunque non priva di sbavature (il bambino che realizza come la scuola sia meglio della guerra lascia pensare a una tv seriamente convinta che un bambino stia guardando il film e che abbia bisogno di sentirsi spiegare una cosa così). Il risultato è, come spesso avviene in questi casi, contrario alla figura che racconta: mentre la Lubich si propose universale, il suo racconto, immerso in formalità religiose e discorsi prescritti, si limita e parla solo a chi già conosce la vicenda e ne vuole una pacata, languida, trasposizione.

 

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.1