C’era una volta Studio Uno – recensione della miniserie di Rai Uno

C’era una volta Studio Uno è una serie (fiction ma non proprio) televisiva che racconta la genesi del varietà più innovativo della Rai degli anni ’60. Intrecciando al suo interno le vicende di tre protagoniste, interpretate da Alessandra Mastronardi, Diana Del Bufalo e Giusy Buscemi.

C’era una volta Studio Uno racconta la golden age del varietà televisivo con gli occhi del presente

La miniserie diretta da Riccardo Donna intreccia in sole due puntate i sogni e le speranze di tre giovani donne e la storia di un paese in pieno boom economico. Da sfondo lo scintillante mondo dello spettacolo e della televisione. Una scelta vincente, dal momento che la televisione stessa – come industria e come mezzo di comunicazione artistico rivolto alle masse – è probabilmente l’ottimo espediente per contestualizzare ad ampio spettro la storia di un intero paese in un periodo di svolta.

Studio Uno è stato il programma di puro intrattenimento improntato sul genere del varietà, della rivista – quindi anche di declinazione teatrale – in grado di combinare elementi musicali, comici e balletti: uno show completo.

Nella prima delle due puntate è di grande valore storico ciò che ruota intorno Giulia e al suo ruolo professionale: al colloquio in Rai come segretaria dice che vorrebbe quel posto di lavoro perché “la televisione è il futuro” e al primo compito affidatole si trova in un centralino del – per noi irrealmente obsoleto – “servizio opinioni” ad ascoltare i telespettatori e le telespettatrici, con l’obiettivo di dare il meglio.

C’era una volta Studio Uno è un prodotto che, nonostante il forte carattere celebrativo dei tempi che furono, non lascia la mitologia dello sfavillante realtà televisivo in un ricordo fumoso ma, tutt’altro, lo restituisce proponendolo come punto di partenza di corsi e ricorsi storici – per dirla usando un riferimento letterario – presenti, passati e, certamente, futuri.

La narrazione di C’era una volta Studio Uno, frutto di una sceneggiatura semplice, tratta la sfera femminile come punto di vista focale per essere catapultati in un’era, quella degli anni ‘ 60, in cui tutto si imbastisce partendo dalla voglia di emergere, dall’ambizione di poter realizzare i proprio sogni. Tutto sarebbe uguale ai giorni nostri, verrebbe da pensare a chiunque si sia immedesimato in Giulia, Rita ed Elena o nelle loro controparti maschili (interpretate da Domenico Diele, Andrea Bosca e Gianmarco Saurino), ma vero è anche che risulta difficile pensare che un giovane tra 50 anni possa guardare a questi anni come moltissimi guardiamo proprio quegli anni lì.

C’era una volta Studio Uno è un buon prodotto, onesto e in grado di trasmettere con una resa inevitabilmente nostalgica un periodo ricco di conflitti e, per questo, interessante. Nonostante in qualche passaggio risenta in maniera negativa dell’influenza delle love stories sempre e comunque sdolcinatamente femminili, la regia dinamicamente riesce a trascinarci nel dietro le quinte, nelle logiche che c’erano e ci sono nella creazione dei format. A tal proposito, è interessantissimo il personaggio di Antonello Falqui (Edoardo Pesce): il vero padre di Studio Uno. Un personaggio non di fantasia, insieme a Guido Sacerdote (Simone Gandolfo), che anima interamente il racconto e che ci ricorda che “quel che siamo ora viene da lì”.

Un messaggio, quello di C’era una volta Studio Uno, che si rivolge ai giovani usando la tradizione come chiave di apertura verso la modernità, ma che, certamente, si è rivolto ai protagonisti veri di quegli anni, i meno giovani, con un linguaggio moderno che proviene inevitabilmente dalla tradizione. Dalla nostra storia.