Capone: recensione del biopic con Tom Hardy

Tom Hardy è Al Capone nel funereo biopic scritto e diretto da Josh Trank sull'ultimo anno di vita del famigerato boss italoamericano.

Se ci fosse ancora qualche dubbio sull’attrattiva che la figura di Al Capone ancora è in grado di esercitare sull’immaginario popolare degli americani, nonostante l’uso spropositato che se ne è fatto nel corso degli anni, diretto o indiretto che sia, non bisogna tanto pensare all’enorme attesa che si è creata intorno a Capone, quanto all’identikit del suo regista e alle speranze che ha riposto in esso.

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Josh Trank, 36 anni, dopo un flop enorme come I Fantastici 4 e con appena due opere (prima di questa) all’attivo, cerca il suo riscatto, non solo commerciale, ma anche personale e artistico, in una pellicola su Al Capone, non proprio una tematica o un personaggio vicino ad un ragazzo di quella generazione. Una scelta tra l’altro chiaramente presa con forza e coinvolgimento: Trank ne firma regia, sceneggiatura e montaggio. Probabilmente nel tentativo di ritrovare quella appropriazione che fece le fortune dell’ex (ormai si può dire) enfant prodige di Hollywood con Chronicle, il suo fulminante debutto.

Purtroppo per lui la sua visione è viziata da un equivoco di fondo, che esercita la stessa funzione delle sabbie mobili, impedendo al film di decollare. E neanche un ottimo Tom Hardy riesce a trarlo d’impiccio.

Capone esce su Prime Video il 10 agosto 2020.

Capone

Capone, cinematographe.it

La sentenza del processo per evasione fiscale del 17 ottobre 1931 segna la fine di uno dei più grandi regni criminosi della storia recente, condannando il suo sovrano, Al Capone, a  scontare una lunga pena per evasione fiscale. Dopo dieci anni passati dietro le sbarre il famigerato boss viene però lasciato vivere in esilio nella sua villa in Florida, seppur sempre sotto stretta sorveglianza del governo, a causa del peggioramento delle sue condizioni fisiche e psicologiche causato dalla neurosifilide.

La storia di Trank narra dall’ultimo anno di Fonse, da Ringraziamento a Ringraziamento, descritto come un lento (molto lento) rito funebre che cerca di trovare la sua strada sotto forma di una visionaria discesa nell’oblio di una mente malata, un tempo grande e ora in decomposizione.

L’ex boss col volto di Tom Hardy è un re folle, prigioniero nel suo castello in rovina, circondato da statue di eroi e dei greci e romani, seduto sul suo trono di vimini con il sigaro in bocca, mentre bofonchia un italiano mangiucchiato e ascolta le gesta della sua vita passate in radio, come se fossero protagoniste di un racconto lontano o, peggio, di un racconto inventato. Sintomo di una distanza enorme, come quella tra la figura che dovrebbe essere il fu Al Capone e colui che ci ritroviamo davanti: un energumeno che a tratti sembra il mostro di Frankenstein per movenze e ringhi, più che un gangster decaduto. Impressione mitigata, per quanto possibile, solo dalla prova attoriale del protagonista, che accetta un ruolo molto rischioso, flirtando pericolosamente con un rischio overacting sempre in agguato.

È la sua interpretazione a rendere a tratti godibile una pellicola con tanti difetti, al punto di apparire stonata nel torpore generale tra cui affogano il dimenticabile dottore di Kyle MacLachlan e Johnny il gangster col volto di Matt Dillon. Si salva solo Linda Cardellini, che alla sua Mae riesce a dare, nonostante tutto, un tratto riconoscibile.

Fonzo

Capone, cinematographe.it

Prima di Capone c’era Fonzo nella mente di Trank (il titolo del film cambiò solo dopo diverso tempo), l’uomo misero dietro l’icona leggendaria, quello soggetto al fruire del tempo e, più importante, al decorso della malattia. Ma la scelta alla fine è ricaduta, purtroppo, su Capone e questo è assolutamente un fattore non secondario per capire la natura della pellicola.

La ingiustificatamente arrogante visione del regista appare infatti in perenne confusione sulle tematiche che vuole affrontare e su quale uomo vuole raccontare, trasformando il suo tentativo di creare qualcosa di nuovo (un racconto sull’epica mafiosa spogliato di epicità?) nella più classica formula di un racconto crepuscolare teso alla decostruzione di una personalità ormai stanca e anziana, con il difetto di non aver però costruito in realtà nulla da poter distruggere né di aver individuato un escamotage concreto intorno a cui far ruotare tale percorso.

Il primo punto si evidenzia semplicemente con la domanda: se quello sullo schermo non fosse Al Capone, cosa sarebbe cambiato in sostanza nella pellicola?

Sul secondo si possono fare invece delle ipotesi: il figlio non riconosciuto? I 10 milioni di dollari nascosti? La sua continua ricerca del suo sé infante? Non si mette a fuoco bene nulla perché nulla viene portato mai avanti fino in fondo e tutto è preda di una ossessiva indecisione. Ogni cosa si risolve in parentesi, anche sfilacciate, prive di un significato organico, con il risultato di rendere la pellicola francamente solo un irritante trattato “simil lynchiano” di un pressoché vuoto decadimento psicologico. E lynchiano è per i toni, non per l’acutezza o l’enigma degli sviluppi. Non a caso il direttore della fotografia è un signore che si chiama Peter Deming (Mulholland Drive).

Capone, cinematographe.it

La stessa cervellotica confusione è alla base anche del tipo di simbolismo che si sceglie per accompagnare il delirio onirico del protagonista: banale nel contenuto e inutilmente ricercato nella forma, quando non prende (anche non volendo) dall’immaginario di IT o si lancia in parallelismi con Il Mago di Oz. Una pistola che spara a salve nelle mani di Trank, scelta per il gravoso compito di spiazzare lo spettatore e condire Capone di quelle trovate che avrebbero dovuto renderlo affascinante e coinvolgente.

Come spesso accade in questi casi tutti i dubbi e i dietrofront dell’autore cercano la loro assoluzione in una trovata comune, un centro nevralgico accogliente, per lo più improvvisato, che per l’occasione completa il già ampio inventario di citazioni a I Soprano o al Padrino. Se assolve qualcosa giudicherete voi; sicuramente è la sentenza senza appello della piccolezza della pellicola, condannata da una vuotezza mascherata da acutezza e da una distanza tra gli elementi che la compongono e, di conseguenza, tra lei stessa e il pubblico.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 3
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 1.5

2.2