Candyman (2021): recensione del sequel spirituale di Nia DaCosta

L'eco di Candyman si fa ancora più pressante in questo rifacimento del cult del 1992, diretto da una mano più che competente e contornato da un cast ricco di talenti non più nascosti.

Una delle icone horror più sottovalutate nel panorama dei film slasher: Candyman prende forma in una rivisitazione mai così attuale e messa a punto dal produttore e sceneggiatore Jordan Peele (Scappa – Get Out, Noi) e dalla regista Nia DaCosta (al lavoro sul prossimo film su Captain Marvel, intitolato The Marvels). La storia narra di Anthony McCoy (Yahya Abdul-Mateen II), un pittore in piena crisi creativa. Con la spinta morale di Brianna (Teyonah Parris), la sua compagna nel campo dell’arte e nella vita, decide di farsi da fare. Anthony trova improvvisamene ispirazione nella leggenda di Candyman, una figura spaventosa che viene evocata attraverso lo specchio, nominandolo cinque volte. Con questa premessa invitante a sua disposizione, il pittore inizia un viaggio trasformativo che porterà alla pazzia, sconvolgendo le fondamenta dei suoi rapporti e riportando una presenza scomoda nel suo quotidiano.

Il film è attualmente in programmazione dal 26 agosto in tutte le sale italiane.

Specchi che riflettono un’esistenza fallace in Candyman (2021)

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Sin dall’apertura del film, l’esperienza di visione deve essere tutta basata su elementi specchiati: dai logo delle case di produzioni ai grattacieli che cadono in picchiata verso un cielo tutt’altro che limpido, fino a riportare lo specchio come punto di congiunzione con il male rinato. Candyman si nutre di un mondo per lui intangibile, ma cristallino quando viene evocato. Il contrasto è fortemente voluto per rafforzare una regia organizzata, che tiene a mente della geometria di quartieri lasciati al loro destino e di interni che rappresentano una nuova comunità che nasce dalle ceneri di Caprini-Green, a Chicago. Una lastra di vetro è il fulcro di un rifacimento subdolo, accattivante, che fa dell’arte e dell’esposizione di opere astratte un portale per accogliere uno spirito vendicativo che attendeva il suo ritorno in scena per mietere nuove vittime.

La struttura narrativa sta tutta nel richiamo di una forza sovrannaturale che si erge a simbolo collettivo di rabbia intestina e soffocata e nella decomposizione di un corpo imponente, di un artista spezzato dalle sue stesse ambizioni: Anthony McCoy è interpretato da Yahya Abdul-Mateen II con una propensione verso l’autoconvincimento delle proprie capacità espressive; un percorso labirintico dove la fascinazione per le storie lugubri e per le efferatezze risultano una colonna portante per il suo decadimento psicologico. Candyman si interessa a lavorare su personaggi che si illudono di una realtà che ormai è stata modellata dalla gentrificazione e dall’avvento di una nuova borghesia che va stanziandosi su traumi di un passato violento, con ammirevoli risultati sul fronte della stesura di temi e interpretazioni del soggetto.

Candyman e la direzione immacolata da parte di una promettente Nia DaCosta

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Il vortice che avviluppa i protagonisti viene azionato, con convinzioni ritoccate di sana pianta e apparizioni che iniziano a sconvolgere le basi di Caprini-Green. Assistiamo ad estensioni di menti malleabili, costrette a servire una leggenda che si ricompone attraverso le paure più profonde, per il giudizio altrui e per la ghettizzazione di un’intera comunità. Quella che doveva sembrare un’operazione di remake si trasforma in sequel diretto con conseguenze, dal finale del primo film originale del 1992 diretto da Bernard Rose, che si sviluppano sotto gli occhi di vittime sacrificali che pensano di raccogliersi in un mondo sofisticato e protetto da mura impenetrabili. L’arte viene espressa con una cattiveria aggiornata, pronta a raffigurare delle componenti molto riuscite che risalgono al body-horror di David Cronemberg: l’anima di Candyman scalcia e i prigionieri degli specchi si disintegrano, anche fuori dalla diegesi.

Nia DaCosta cerca di imbastire una direzione superba, frutto di una progettazione minuziosa di ambienti e oggetti di scena che aiutano a non mostrare dettagli espliciti in ogni uccisione. Prospettive singolari e movimenti impeccabili di una cinepresa furiosa avanzano indisturbati per disturbare la psiche di Anthony e delle persone a lui care, nel tentativo di riproporre con determinazione la storia sofferta di Daniel Robitaille, il vero nome dietro all’Uomo con l’Uncino al posto del braccio destro. Un’artista incompreso anche lui, dannato per l’eternità e relegato ad una dimensione sfalsata, in grado ancora oggi di definirsi una personificazione della sofferenza collettiva di comunità nere in mano a forze molto più potenti: le forze dell’ordine o la critica pungente di persone altolocate e posizionate sul piedistallo. Davvero impressionante il ritorno in scena di un cult rivalutato di inizio anni ’90, dove spicca una regia ispirata e un cast d’insieme azzeccato, all’interno della quale segnaliamo anche Teyonah Parris e Colman Domingo.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.7