Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione: recensione del docu-film

Evento speciale per soli tre giorni al cinema – 15, 16, 17 maggio 2023 -, il documentario diretto da Giovanni Troilo ricompila vita e tormenti di un genio visionario dell'architettura. Slanciato verso il futuro, ma smanioso di riconoscimento nel suo presente. Al cinema, la storia di una scalpellino che divenne inventore di chimere che sfidano il futuro.

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione si serve dell’interpretazione muta di Jacopo Olmo Antinori per riportare in vita Francesco Borromini, nato Francesco Castelli, che, dal grande nord del Canton Ticino, arriva nella Roma chiaroscurale dei Papi e dei “tagliagole”. Da allora, rimasto ‘orfano’ dello zio che lo guidava, viene notato da Giovanni Maderno, architetto alla sovrintendenza della fabbrica di San Pietro, il quale resta sbalordito dalla sua abilità di disegnatore e gli offre l’occasione, da semplice scalpellino, di diventare a sua volta architetto.

Insieme alle immagini in movimento, drammatizzate per mediazione del corpo attoriale, scorrono le parole di rara puntualità espressiva ed eleganza dei tanti storici dell’arte intervenuti nel progetto: sono le loro ricostruzioni della vita dell’artista a sospingere il documentario secondo un ritmo narrativo costante e sempre avvincente. Gli esperti esplorano, attraverso il racconto che mescola passione clinica e rigore descrittivo, il mistero di una personalità umbratile, in cui, come nelle opere a cui avrebbe dato vita, si urtano forze contrarie, la complessità del pensiero anticipatore e l’elementarità di un desiderio di riconoscimento.

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione: vita di un artista letta attraverso il rapporto di rivalità con un altro artista, in un’epoca in cui l’arte era strumento di potere e di propaganda

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione: recensione cinematographe.it
Il documentario drammatizzato è al cinema per tre giorni. Presto sarà nel palinsesto Sky e su Now.

Se gli artisti, nel Rinascimento, avevano dovuto svolgere più funzioni – insegnare per mezzo delle immagini a chi, analfabeta, non aveva accesso ai testi; creare qualcosa che potesse essere definito bello –, nel Seicento, in epoca barocca, viene loro chiesto anche di stupire. E, dato che il Papa è il loro principale committente, le opere che realizzano devono corrispondere al mecenate l’immagine della magnificenza dell’istituzione che rappresenta: la Chiesa di Roma. Quella cattolica, sopravvissuta, anche se un po’ malconcia, alla riforma luterana e ai suoi tentativi di condannarne e archiviarne gli sperperi.

Perché Borromini possa cominciare a stupire, bisogna attendere il 1623, anno dell’elezione al pontificato di Urbano VIII, esponente della famiglia Barberini, tra le più influenti di Roma. Papa Barberini è infatuato di un architetto, Gian Lorenzo Bernini, coetaneo di Borromini (tra loro, appena un anno di età): a Bernini il neopontefice assegna, sotto la direzione di Maderno, la realizzazione degli interventi creativi di Palazzo Barberini, mentre Borromini è relegato al ruolo di mero esecutore. Bernini è carismatico, istrionico, a suo agio con la politica e con lo spettacolo, molto diverso da Borromini, di carattere invece schivo e alieno ai meccanismi di potere: tra i due, emerge fin da subito una rivalità che nel tempo si fa aperto antagonismo. Borromini comprende che, fintanto che l’altro è nelle grazie del Papa, il suo margine di azione è limitato al ruolo di subalterno: per ricavarsi uno spazio di autonomia espressiva, comincia, così, ad accettare, a discapito del vantaggio economico, committenze provenienti da ordini religiosi minori.

Lavora alla Chiesa di San Carlo alle quattro fontane, capolavoro barocco di architettura che ispira al movimento e al dialogo con Dio: per poterne apprezzare l’articolazione delle geometrie e degli spazi, è necessario spostarsi al suo interno; per incontrarvi Dio, occorre alzare lo sguardo perché, se è vero che davanti a sé c’è l’ombra, se si guarda in alto, si trova la luce. Si tratta di un messaggio di fede, racchiuso anche nella scelta di rimuovere gli spigoli vivi e di sostituire gli angoli con le curve: la Chiesa accoglie, è uno spazio ricettivo che mostra al fedele come la sua capacità di visione, se non modulata attraverso un movimento alto-basso, sia limitata, angusta, foriera di prospettive fallaci. Mentre Bernini, che, negli stessi anni, si occupa di Sant’Andrea al Quirinale, prosegue la sua ricerca architettonica convalidando la tradizione e interpretando la sensibilità barocca secondo la via facile dell’esibizione dello sfarzo e dei simboli di potere, Borromini rilegge i classici per farne qualcosa di diverso, per disubbidire allo loro lezione. Rifiuta il decorativismo – la sua scultura disegna uno spazio pieno, non aggiunge semplicemente ornamento a una struttura portante – e l’immanenza – l’opera è un testo e, come tale, va letta, decodificata, interrogata, in nome di una trascendenza, di un passaggio allegorico ad un altro piano di significazione –; cerca inoltre di cambiare, insieme all’architettura, il pensiero e la vita delle persone che stabiliscono un contatto con quella architettura.

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione: l’ambizione di un uomo che soffriva di non potersi esprimere e soccombeva alla propria impreparazione politica

Jacopo Olmo Antinori e Pierangelo Menci interpretano Borromini e Bernini.

La sua ambizione è smisurata, così come la frustrazione di sapersi secondo e di venir spesso additato come eccentrico. Negli anni del pontificato di Innocenzo X, che succede a Urbano VIII, il vento tuttavia cambia: Bernini, legato al pontefice precedente, viene ridimensionato e, per circa un decennio, Borromini gode del sostegno del nuovo Papa. Sotto il suo regno, realizza, tra le altre cose, la Cappella di Sant’Ivo alla Sapienza, di cui la torre a spirale dalla sommità dorata, nel librarsi verso il cielo – “aggressiva“, dice uno degli esperti –, è emblema della sua poetica di salto direttamente in grembo a Dio, di graffio al suo enigma. Ma la stagione del successo puntualmente si conclude anche per lui, quando un nuovo Papa – l’architetto dilettante Alessandro VII – sale al potere, e per lo scalpellino, che disegnava anche durante le pause in cantiere e infine divenne architetto libero di realizzare le sue idee avveniristiche, si rinnova il senso di precarietà già sperimentato, a cui si aggiunge la disillusione di sapersi di certo non più invisibile, ma sì sostituibile, dimenticabile. Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione chiude re-inscenando la morte teatrale di Borromini, afflitto dall’ipocondria – il termine con cui, al tempo, i medici definivano la malinconia e il ripiegamento su di sé – e deluso rispetto alle sue attese di gloria. Anche il suicidio, da cui era da sempre attratto come espressione di controllo sulla vita e della propria libertà di scelta, compiuto platealmente gettandosi su una spada, è stato, in fondo, un modo di farsi notare, di gridare: “Riconoscetemi! Non dimenticatemi!“.

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione: conclusione e valutazione

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione è il docufilm di Giovanni Troilo, al cinema solo tre giorni (15,16 e 17 maggio) grazie a Nexo Digital e Sky.

Borromini e Bernini. Sfida alla perfezione allestisce, dunque, un racconto lineare, per così dire disciplinato, intorno all’indisciplinabile dell’energia maniacale – ossessiva, eccessiva, pur nella raffinatezza delle forme a cui dava origine – di un genio dell’architettura che ha lottato, per amor della propria arte e dell’urgenza creativa, contro le alterne vicende della fortuna, l’ingombro di un rivale meno talentoso, ma più scaltro nell’inserirsi nei giochi del potere e nell’assumerne i mimetismi, e l’incomprensione dei suoi contemporanei per i quali le sue creazioni erano opera del diavolo.

Il documentario, semplice nella sua costruzione in cui la componente critica prevale su una drammatizzazione che si limita a fare da garbato puntello, si rivela esperienza insieme intellettuale ed estetica di grande valore soprattutto grazie ai contributi, sempre competenti, dei tanti critici e storici dell’arte che, con le loro parole precise, restituiscono il disegno di una personalità larger than life, nel contempo consumata e animata dall’ansia di perfezione, il demone a due facce che, per tutta la sua vita, ha strattonato Borromini per le braccia: ora verso il basso di una stagnazione depressiva, nel crogiolo del proprio mito; ora verso l’alto di un prolifico inappagamento, di un desiderio di rilancio al sempre nuovo. Con i suoi disegni, quelli sopravvissuti all’incendio a cui l’artista un giorno stabilì di destinare i suoi ‘figli’, forse per una premonizione di morte o forse per gelosia possessiva, dovranno misurarsi gli architetti del futuro. Le “chimere” di Borromini insistono – e ancora insisteranno – per venire alla luce.

Al documentario partecipano: WALDEMAR JANUSZCZAK, critico d’arte e scrittore, appassionato di Borromini; PAOLO PORTOGHESI, architetto, accademico e teorico dell’architettura italiano, massimo esperto di Borromini e del barocco romano; JEFFREY BLANCHARD, professore alla Cornell University di Roma, esperto storico dell’architettura rinascimentale e barocca; GIUSEPPE BONACCORSO, studioso di Francesco Borromini, autore di uno saggio molto aggiornato e ancora inedito su una ricostruzione del suicidio di Borromini; AINDREA EMELIFE, curatrice e critica d’arte contemporanea; DARIA BORGHESE, professoressa di Storia dell’arte medievale e moderna alla American University di Roma, esperta di Gian Lorenzo Bernini.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.5